CRITICA E AUTOCRITICA
La nascita di Resistenza Popolare ha creato interesse e suscitato critiche. È confortante sapere che i rapporti con i compagni nel Partito Comunista sono rimasti per lo più positivi e attestanti una reciproca stima, pur nella divergenza delle scelte fatte. Spiace dire che non altrettanto sia accaduto con il gruppo dirigente nazionale, che non ha mancato di denigrarci alle spalle e di farci attaccare dai propri alleati politici. È più importante che l’uscita dal PC ci abbia permesso di attivare o riattivare nuovi rapporti, in primo luogo con compagni e gruppi organizzati comunisti, con cui si è iniziato un dialogo necessario per tutti.
Diversi compagni hanno espresso interesse per l’operazione lanciata e sono adesso alla finestra a guardare come ci muoveremo. Altri hanno gioito per quella che hanno presentato come l’implosione del PC e rivendicano il primato di aver capito prima degli altri le proprie critiche alla dirigenza e alle progettualità seguite fino ad ora dal Partito. Alcuni compagni, anche tra i nostri, iniziano già a spingersi affermando che sia necessario autocriticamente rivedere alcune posizioni controverse su alcuni temi importanti nel dibattito pubblico attuale e degli ultimi anni: sovranità, sindacato, ambiente, vaccini, immigrazione, LGBT, ecc.
Sarà sicuramente necessario affrontare questi temi in maniera trasparente e pubblica, senza stravolgere le posizioni avute fino ad oggi, ma uscendo da semplificazioni eccessive e ampliando il dibattito ad una platea più ampia di compagne e compagni consapevoli che l’attuale dispersione e frammentazione rende estremamente problematico agire in maniera egemonica nella società. Bisogna però stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca: gran parte delle analisi fatte fino ad ora, per quanto estremizzate e divulgate populisticamente da leader mediatici rivelatisi inadeguati, rimangono nei loro fondamentali valide.
L’errore principale che ha fatto il PC è stato aver abbandonato la volontà di rimanere coerenti e tenere la barra dritta su questioni basilari come l’attualità del paradigma antifascista, che viene oggi strumentalizzato dal PD per i propri scopi, ma non per questo va abbandonato. Occorre da parte nostra uno sforzo instancabile di denuncia di questa strumentalizzazione, ribadendo in pari tempo che le categorie valoriali di destra e sinistra rimangono valide. Affermare il superamento di tale dicotomia significa accettare la narrazione di quei settori neofascisti che da mezzo secolo sostengono esattamente questo (ricordarsi dell’“estremo centro alto” di Casapound o di slogan come “né rossi né neri, ma liberi pensieri”…).
Altro conto è affermare che le attuali forze politiche di centrodestra e centrosinistra facciano nella sostanza le stesse cose e siano protagoniste di una falsa alternanza nell’attuale totalitarismo “liberale”. Il PD di oggi è perfino peggio della DC di 50 anni fa, che non era certo una forza di sinistra…
Sono temi su cui bisognerà tornare per ricostruire un lessico degradato da decenni di degenerazioni e spoliticizzazione di massa, facendo perdere di vista ai più la bussola fondamentale per tracciare una direzione adeguata.
Alcuni, per fortuna pochi, dicono che dovremmo semplicemente sparire dalla scena per gli errori fatti. Non credo che nessuno possa oggi permettersi di parlare dall’alto. Le storie personali dei fuoriusciti sono storie di militanza che vanno avanti da anni con serietà e coerenza. Il fatto di aver rinunciato alle proprie “poltrone” e di essere usciti ora, dopo la nascita del partito DSP, e non dopo le elezioni europee, credo testimoni che le scelte dipendono da analisi e scelte etico-politiche ben precise, fatte da comunisti che intendono rimanere tali. Siamo comunisti e non intendiamo nasconderci dietro altre sigle per opportunismo ripetendo gli stessi errori per scopi elettoralistici, ma mettiamo le nostre energie e la nostra esperienza a disposizione delle classi oppresse.
Ci si rinfaccia comunque il ritardo dell’uscita, e di aver accettato un sacco di porcherie. Abbiamo fatto dei compromessi, è vero. Compromessi anche importanti, dovuti in parte alla necessità di rispettare la disciplina di partito, ma sempre con un fine e uno scopo preciso: rafforzare l’organizzazione del partito comunista. Questa operazione ha mostrato grandi potenzialità nella fase iniziale, ha funzionato parzialmente per un certo periodo, per poi diventare deleteria negli ultimi mesi. Siamo quindi innocenti e immacolati? No, abbiamo fatto i nostri errori di analisi. È un limite soggettivo nostro? Sicuramente in una certa misura sì. Se anche i grandi maestri del socialismo hanno fatto i loro errori, non possiamo certo pensare di non averne fatti anche noi.
Crediamo però che una buona parte dei nostri errori origini dal fatto che il partito in cui militavamo non funzionasse in maniera adeguata. Il tema della degenerazione del partito nasce sempre a partire da una percezione soggettiva, e solo in un secondo momento diventa patrimonio comune. Uno dei problemi insiti nel centralismo democratico è la facilità con cui esso possa degenerare in centralismo burocratico, specie a fronte della presenza di una figura forte di riferimento (quello che Weber chiamava il “capo carismatico”), seguita dalla maggior parte dei dirigenti e dei militanti. Quando ci si pone come avanguardia politica ci si presta sempre ad essere attaccati da molti nemici, iniziando a trattare come tali anche quelli che fino a poco prima erano tuoi compagni di strada. Le logiche “di gruppo” creano fenomeni di immedesimazione e solidarietà interna che annebbiano la ragione di molti. A peggiorare le cose spesso si affianca agli elementi passionali una razionalità più misera, fatta di opportunismo. Un dirigente capace queste cose le sa, e sa che qualsiasi cosa farà ci sarà sempre qualcuno disposto a seguirlo, vuoi per fiducia sconfinata, vuoi per fede, vuoi per interessi personali.
Il nostro più grande errore è stato quindi aver dato fiducia ad un leader mediatico noto per la propria spregiudicatezza, con cui per anni ha combattuto con asprezza e merito il revisionismo delle sinistre degenerate, contribuendo a tenere viva la questione del marxismo-leninismo e riuscendo a conquistare importanti simpatie tra la gente comune. Chi più, chi meno, la maggior parte di noi si è fidata e non si è soffermata a lungo sulle mezze verità, sulle analisi sbagliate, e abbiamo aperto gli occhi solo di fronte alle bugie più palesi, oltre che a certi atteggiamenti ormai indirizzati verso nuovi orizzonti politici sempre più incoerenti con il socialismo.
Anche ammesso che l’orizzonte strategico rimanga quello, non si può non ricordare che l’avanguardia, soprattutto nel suo gruppo dirigente, non può permettersi di liquidare ogni critica e perdita di militanti e quadri come l’incapacità altrui di comprendere, ma deve coinvolgere e convincere nel processo decisionale tutto il corpo del partito, senza operare strappi e forzature, ma cercando una sintesi. Se il dirigente corre troppo veloce, o agisce oltre il mandato che gli è stato dato, allora non può più lamentarsi che i più non stiano al suo passo. Sia che l’avanguardia rimanga ferma, sia che l’avanguardia corra 10 passi avanti nella direzione sbagliata, la conseguenza è che essa in tali casi cessa di essere avanguardia; è avanguardia se avanza un passo alla volta nella direzione giusta scelta assieme a tutta la propria comunità di riferimento, assicurandosi che nessuno rimanga indietro.
Ne deduciamo due cose:
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È fondamentale, sia agli occhi degli elementi più coscienti, sia delle masse popolari, la fiducia sull’integrità morale e sulle capacità politiche dei leader. Se manca questa fiducia, non c’è progetto o programma politico che tenga. La selezione del gruppo dirigente, dei “capitani” (cit. Gramsci) è un tema strategico di cui occorre tener presente in ogni progetto di ricostruzione organizzativa.
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È ancor più fondamentale non fare affidamento sui leader carismatici ma costruire un’organizzazione che funzioni in piccolo come vorremmo funzionasse la società: se vogliamo una società democratica, egualitaria, libera, giusta, socialista, dovremo iniziare a costruire un’organizzazione che si fondi su questi presupposti. Per come è fatta oggi la società italiana, totalmente aliena alla politica militante, questa è una precondizione essenziale per ridare slancio e vigore alla questione comunista.
Non si tratta di rinunciare al centralismo democratico e approdare ad una democrazia diretta radicale, cosa oggi impossibile, ma di darne quell’adeguata applicazione accettando di costruire assieme le regole e i punti programmatici più problematici del partito che verrà.
L’avanguardia che verrà dovrà tenere conto di tutto ciò, lavorando a costruire quello che Cunhal ha chiamato in un suo importante libro “il partito dalle pareti di vetro”.
Questa è la nostra autocritica, che rifiuta la liquefazione e il disfattismo, e che intende mantenere un approccio critico ma dialogante con tutti coloro che vorranno costruire con noi la Resistenza Popolare all’attuale regime.
Alessandro Pascale & Salvatore Catello
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