QUANDO IL PCI NON ERA EUROPEISTA

Lug 15, 2019 | articolo

[Quello che segue è un articolo-recensione del libro L. Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-1957), Derive Approdi, Roma 2019. L’articolo è stato pubblicato sul giornale La Città Futura: A. Pascale, Quando il PCI non era europeista, La Città Futura, 14 luglio 2019. È disponibile in formato PDF su Academia]

 Di recente Luca Cangemi ha pubblicato un prezioso libro che meriterebbe ampia diffusione. Si intitola Altri confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-1957)1, edito per Derive Approdi, con prefazione di Giorgio Cremaschi. Fin dal titolo si capisce il contenuto dell’opera, il che costituirà una sorpresa per chi non conosce la storia del PCI; purtroppo sono molti i “compagni” odierni che non hanno avuto la pazienza o il tempo per farlo. Penso soprattutto ai più giovani della “generazione erasmus” che crescono in un clima di sfrenato filoeuropeismo e che assorbono come spugne, e non senza una certa indifferenza, qualsiasi amenità raccontata dai media e dalla gran parte del ceto politico attuale.

 L’opera in questione invece ha il pregio di ricordare, in maniera snella (un centinaio di pagine ben scritte) un’altra storia di cui proverò a tracciare i contenuti essenziali, limitando al minimo ulteriori osservazioni.

 IL PECCATO ORIGINALE

 Occorre innanzitutto partire dalla «decisiva matrice statunitense» della comunità europea (poi UE), così come ricordato ad esempio da Lucio Caracciolo, direttore della prestigiosa rivista Limes2. Il perché è presto detto: l’unità dell’Europa occidentale era necessaria in funzione antibolscevica nell’ambito della guerra fredda, scatenata dagli USA fin dal 1945. Di tutto ciò ha dato prova inoppugnabile Filippo Gaja in un libro troppo spesso dimenticato come Il secolo corto (1994). Ci sono certamente altre ragioni per cui l’Europa sia nata con il consenso delle classi dirigenti europee: ad esempio quella di garantire gli interessi coloniali europei, in un momento, quello del dopoguerra, in cui sono in centinaia di milioni in tutto il mondo ad alzare la testa per emanciparsi dal brutale dominio occidentale: «l’unità dell’Europa diventa quindi funzionale a questa resistenza geopolitica e ideologica, che si esercita soprattutto contro le lotte anticoloniali dei popoli dell’Africa e dell’Asia»3. All’epoca i comunisti hanno consapevolezza della questione, e ricordano fin dal 1944 come le iniziative “europeiste” degli anni ’30 fossero «di origine fascista», miranti a costruire nient’altro che «una diga antisovietica»4. 

SPINELLI E LE INFLUENZE CULTURALI DEL MANIFESTO DI VENTOTENE

 Certo, la celebre prospettiva federalista del manifesto di Ventotene matura negli anni ’40, non imputabile di simpatie fasciste. Eppure il suo maggiore ispiratore, Altiero Spinelli, «si nutre di una cultura estranea e ostile al movimento operaio», tanto da negare nettamente «la coincidenza tra socialismo e marxismo», oltre che tra «collettivismo e lotta di classe»5.

 Maggiore ispirazione gli viene invece, come ammesso dallo stesso Spinelli, dal liberale Luigi Einaudi, in un esito eterodosso che lo conduce a rifiutare nettamente «la logica degli Stati sovrani». Come costruire il nuovo ordine federalista? Influenzando le élites politiche: «Le masse sono programmaticamente escluse» dall’azione politica di Spinelli, in quanto «mosse da sentimenti e non da ragionamenti»6. 

GLI “EUROPEISTI” AL SERVIZIO DELLA REAZIONE

 Oltre al ben noto Spinelli chi sono gli altri europeisti dell’epoca? Gente che non può «che rafforzare la diffidenza e l’ostilità» dei comunisti: all’estero il noto anticomunista Winston Churchill; in Italia, nell’ambito della «sinistra di matrice marxista», dei «marginali e isolati uomini e gruppi» come quelli che si raggruppano intorno alla rivista Europa Socialista diretta da Ignazio Silone, consapevole collaborazionista della CIA (così come Spinelli d’altronde)7. C’è poi anche una piccola corrente interna al Psiup, guidata da «Zagari, Libertini [tra i padri fondatori del PRC, ndr], Vassalli, Solari e altri» il cui organo di stampa viene significativamente denominato Iniziativa Socialista per l’unità europea8. Davvero poco altro, con gran dispiacere di Spinelli ed Ernesto Rossi. 

L’IMPRONTA ATLANTICO-CRISTIANA

 Logico quindi che il primo inizi nel 1947 ad esaltare il piano Marshall, giudicato utile per costruire «un’Europa occidentale fortemente legata agli interessi e alle strategie degli USA, orientata decisamente in senso antisovietico»9. Mentre gli USA aggiornano febbrilmente i piani militari per un bombardamento nucleare preventivo dell’URSS, nel 1948 partono i preparativi per costruire «un patto militare in difesa dell’Europa occidentale», pensato da inglesi e francesi come uno strumento per mantenere un ruolo internazionale indipendente tra i due blocchi, pur tenendo ferma l’alleanza con gli USA10. L’Europa che si va progettando, con il supporto dei «capi socialisti di destra», è nella sostanza un polo imperialista, che viene mascherato dalla sempre più forte «matrice democristiana» con cui ci si richiama all’Europa «di Carlo Magno», ossia al carattere di guida dato dal cristianesimo cattolico-conservatore, volenteroso di restare ancorato al fronte atlantico e anticomunista11.

LO SCONTRO INTERNO AL MONDO MARXISTA

 Il collaborazionismo mostrato da ampi settori della II Internazionale (quella socialista ed eurocentrica) riaccende vecchi conflitti ideologici che si credeva sedati, come quando Lenin polemizzava con Trockij sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa12. Se le tesi di Trockij erano state sconfitte definitivamente nel congresso del Comintern del 1928, il loro riaffiorare in forme simili nel dopoguerra spinge i comunisti alla ferma opposizione13. Così Togliatti nel 1952: «Tutte queste chiacchiere sull’unitò dell’Europa, sul “federalismo europeo”, dobbiamo dunque saperle smascherare a dovere, mostrare a tutti che si tratta di un ciarpame vergognoso, col quale si copre la rinascita del militarismo tedesco e del militarismo italiano e la costituzione di un blocco di forze aggressive al servizio dell’imperialismo americano»14.

Anche in campo socialista però non mancano le perplessità e i dubbi su questo europeismo atlantista e conservatore, tant’è che PSI e SPD se ne pongono all’opposizione fino alla seconda metà degli anni ’5015. 

LA MATRICE MILITARISTA

 Nonostante un ampio fronte socio-politico (in Italia comprendente anche settori di Confindustria e della sinistra DC) contrario al progetto della Comunità europea di difesa (CED), l’esercito integrato europeo sarebbe probabilmente nato già a metà anni ’50 se non ci fosse stata l’opposizione parlamentare francese; ciò ha l’effetto decisivo al “ripiego” di riarmare e inserire nella NATO la Germania occidentale, generando la proposta di nuovi accordi come l’UEO (Unione europea occidentale), presto bollata da Emilio Sereni come «un nuovo aperto attentato contro la sovranità nazionale e contro la pace»16. 

IL FATIDICO 1956 E LA SVOLTA SOCIALDEMOCRATICA

 A segnare la grande svolta sul tema europeista sarà il fatidico anno 1956, con la destalinizzazione lanciata da Chruscev. Alla denuncia socialdemocratica dello stalinismo si accompagnerà la critica serrata anche «dei dati strutturali del sistema sovietico» e la ricerca di un «europeismo socialista», ciononostante ancora pensato come alternativo all’europeismo atlantista17. Nonostante l’opposizione di Sandro Pertini («atlantismo più europeismo uguale a Guerra fredda») il PSI porrà come proprio obiettivo politico «una nuova organizzazione democratica e unitaria dell’Euopa» a partire dal proprio XXXII Congresso18. Nello stesso periodo muta anche la linea della SPD, dando luogo al blocco politico che governerà l’Europa fino ad oggi: democristiani + socialdemocratici, all’insegna di un’impianto liberista e atlantista che governa con un «metodo funzionalista» fondato sul «negoziato permanente» tra le classi dirigenti europee. Nessuno spazio in questa ottica per un federalismo democratico19, tant’è che Spinelli e i suoi compari, con il nuovo Manifesto dei federalisti europei (maggio 1957) passeranno all’opposizione di una siffatta integrazione continentale che non differisce «sostanzialmente in nulla dalle tradizionali organizzazioni internazionali subordinate alla concertazione dei diversi Stati nazionali, paralizzate dai veti frutto di interessi particolaristici»20.

 LE PRIME CREPE NEL PCI

 È significativo che in questo periodo si assista alla comparsa delle prime crepe anche nel PCI: è del settembre 1956 la presa di posizione del segretario della FGCI, Renzo Trivelli, a favore di «una posizione più coraggiosa e aperta verso la questione dell’unità europea», proponendo «un’atteggiamento nuovo nei confronti degli organismi europeisti esistenti perché vi prevalgano gli interessi dei popoli»21. Ad appoggiare le posizioni revisioniste del “giovane” Trivelli è Alfredo Reichlin dalle pagine dell’Unità nel gennaio 1957, proponendo la necessità di unire le forze progressiste per dare un taglio diverso all’Europa22. Togliatti e il gruppo dirigente del PCI non si fanno però incantare dalle nuove sirene e mantengono una ferma opposizione ai trattati europei di Roma, accusandoli di provocare la sottomissione dell’economia nazionale agli interessi dei monopoli e una sostanziale «neutralizzazione» del contenuto sociale della Costituzione Repubblicana23. Il PCI non cambierà giudizio sul Mercato comune (Mec) neanche negli anni ’60, preferendo porre l’enfasi sulle vie nazionali al socialismo. In questo periodo «sulla comunità europea, in modo abbastanza defilato, si attiva un meccanismo che possiamo definire di “adattamento”», con cui si critica, forse con eccessivo «estremo realismo», la sostanza antidemocratica dell’Europa, rivendicando un’inclusione e un diritto di tribuna negli organismi rappresentativi, tra cui il «decorativo» Parlamento europeo. Nonostante l’apparenza d’altronde è in questa fase che germogliano i semi del revisionismo all’interno del partito, lasciando la “questione europea” all’azione politica di Giorgio Amendola e più in generale alla corrente dei miglioristi.

 DALL’EUROCOMUNISMO AL TRIONFO DI NAPOLITANO

 La svolta effettiva del PCI sul tema avviene negli anni ’70 con la fase berlingueriana dell’eurocomunismo, che consente l’incontro con il redivivo Altiero Spinelli, eletto con i voti comunisti da indipendente nel Parlamento nazionale (1976) e poi in quello europeo (1979): «Spinelli però tenne sempre a precisare che erano i comunisti che aderivano alle sue posizioni», ricorda Cangemi, con un velato atto di accusa alla direzione berlingueriana dell’epoca. Non è un caso che in questo periodo Spinelli dissenta pubblicamente dal Partito che lo ha fatto eleggere «su temi essenziali come lo Sme e il dislocamento in Europa dei missili USA Cruise e Pershing»24. È in questo periodo, e ancor più negli anni ’80, che assume un ruolo via via crescente «il vero fulcro della narrazione migliorista, Giorgio Napolitano», di cui l’autore sottolinea i rapporti con settori europei più o meno riformisti e socialdemocratici, «ma anche statunitensi». L’europeismo del PCI si accentuerà ormai inesorabile negli anni ’80, «fino a fare dell’europeismo uno dei riferimenti ideali centrali dell’ultimo PCI (si veda il congresso del 1986) e poi, soprattutto, uno degli assi della costruzione del PDS»25.

 LA RISCRITTURA DELLA STORIA E L’INVENZIONE DEL MITO

 Rimaneva da costruire una nuova narrazione retrospettiva, compito assolto da una serie di storici revisionisti compiacenti [giudizio mio] come i miglioristi Severino Galante (filo-amendoliano)26, Mauro Maggiorani e Paolo Ferrari (filo-Napolitano)27. Cangemi sottolinea infine come la celebrazione di Spinelli sia costruzione politica recente, dovuta in particolar modo all’azione politica di Napolitano, che svolgerà il primo discorso pubblico da Presidente della Repubblica il 21 maggio 2006, a Ventotene, in occasione del 20° anniversario della scomparsa del “federalista europeo”. Napolitano è stato quindi determinante per dare linfa ad una «tradizione inventata di sana pianta» (Hobsbawm). Scrive Cangemi: «Il ruolo effettivo di Spinelli nel dibattito politico sulle istituzioni europee, anche in Italia e non solo sul piano continentale è, almeno fino all’elezione nelle liste comuniste, di un rilievo assai minore di quanto si tenda ad accreditare. Nulla, invece, può considerarsi la sua efficacia sui processi reali. È però soprattutto l’opinione, diffusissima, che esso rappresenti, sin dal manifesto di Ventotene, il punto di vista di sinistra sull’unità europea che è del tutto destituita di ogni fondamento».

 Spinelli, diventato in anni recenti «icona del traghettamento della sinistra italiana, e in particolare di quella di origine comunista, da un’antica opposizione a un europeismo acritico», è diventato famoso grazie a «risorse imponenti» e alla «mobilitazione di grandi apparati istituzionali, accademici, editoriali» in un’operazione in cui il ruolo di Giorgio Napolitano «è stato assolutamente centrale»28.

Se qualcuno voleva capire l’origine dei problemi della sinistra odierna ha sicuramente con questo libro molti elementi su cui riflettere.

 Alessandro Pascale

 

NOTE

1L. Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-1957), Derive Approdi, Roma 2019.

2Ivi, pp. 13-14.

3Ivi, p. 18.

4Ivi, p. 21.

5Ivi, p. 23.

6Ivi, p. 24.

7Come riporta con tanto di documenti Frances Stonor Saunders nel suo magistrale Gli intellettuali e la CIA; per quanto riguarda Silone si può vedere anche vd A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2019, p. 241, 352, 356.

8L. Cangemi, Altri confini, cit., p. 32.

9Ivi, p. 35.

10Ivi, p. 38.

11Ivi, pp. 42-43.

12Si veda sulla questione l’articolo del 1915 non privo di attualità, riportato da Marxists.org.

13L. Cangemi, Altri confini, cit., pp. 46-47.

14Ivi, p. 54.

15Ivi, p. 48.

16Ivi, pp. 58-59.

17Ivi, pp. 61, 68-69.

18Ivi, p. 74.

19Ivi, p. 62.

20Ivi, pp. 71-72.

21Ivi, p. 64.

22Ivi, p. 76.

23Ivi, p. 78. Il tema dell’incompatibilità dei trattati europei con la Costituzione è stato ripreso negli ultimi anni da Vladimiro Giacché in V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei: Il conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.

24L. Cangemi, Altri confini, cit., p. 94.

25Ivi, pp. 85-88.

26Il Partito comunista italiano e l’integrazione europea: il decennio del rifiuto, 1947-1957, opera del 1988. Scrive Cangemi a p. 89: «la tesi dello storico, che è anche dirigente comunista, è quella di un partito costretto per la sua storia e per la sua costruzione materiale a seguire l’URSS nella lotta all’europeismo ma senza esserne fino in fondo convinto […]. Lo storico padovano cerca, così, di salvare un’idea di continuità politica, anche laddove ciò appare assai complesso. […] Davvero appare difficile rintracciare un filo rosso che unisca l’opposizione alla CECA alle posizioni nettamente europeiste del congresso del 1986».

27L’Europa da Togliatti a Berlinguer. Testimonianze e documenti 1945-1984, opera del 2005. Scrive Cangemi a p. 90: «nato con il contributo finanziario del gruppo dei Democratici di sinistra della Regione Emilia Romagna, […] è assai visibile la presenza dell’impostazione di Giorgio Napolitano». 

La tesi di fondo, storiografica e politica, degli autori: «l’accettazione cui infine il PCI pervenne di una prospettiva europeistica vagamente federalistica viene discussa e proposta come una svolta positiva nella storia del partito». Il testo si caratterizza anche per la polemica da destra verso l’eurocomunismo, per il totale oscuramento del tema coloniale, per la rimozione delle razioni nazionali dell’opposizione all’integrazione europea e per la sottolineatura positiva dell’ingresso nel PCI di «settori significativi della borghesia italiana», che avrebbe favorito il mutamento di prospettiva del partito.

28Ivi, pp. 93-95.

 

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