SULLA MORTE DI PIETRO SECCHIA

Gen 16, 2019 | articolo

[quello che segue è un articolo di Norberto Natali, ex dirigente del PCI,

pubblicato sul proprio profilo facebook nel luglio 2013 con il titolo originario:

7 luglio 1973-7 luglio 2013. Anniversario della morte del compagno Pietro Secchia assassinato dagli imperialisti. Riprendere la nostra storia per riaprire la strada al futuro.

È possibile scaricare il file in formato pdf qui]

È il momento di vuotare il sacco (quasi tutto). Fra le tante ragioni ci sono quelle di risolvere alcuni stranissimi “misteri” della nostra situazione politica. Provo ad elencarne alcuni, senza badare al loro ordine di importanza:

1. Il PCI è oggetto di una sistematica cancellazione dalla memoria collettiva, dalla storia d’Italia che non ha eguali per alcuna altra forza sociale e politica. Ciò si integra, paradossalmente, con una campagna di deformazione e denigrazione della sua storia e della sua identità che alcuni portano avanti, tuttora, quasi quotidianamente. Ciononostante viene completamente eliminata una parte assai importante del PCI che è quella simboleggiata dalla figura e dall’opera del compagno Pietro Secchia. Una sorta di occultamento nell’occultamento (potremmo dire: una cancellazione al quadrato) veramente significativa. Solo un mese fa, Giorgio Napolitano ha rilasciato un’intervista alla Repubblica di oltre un’ora, quasi interamente dedicata alla storia del PCI: sembra che Pietro Secchia, con tutto ciò che rappresenta e significa, non sia mai esistito.

2. Trenta-quarant’anni fa c’erano alcune forze di estrema sinistra dedite all’attacco, anche violento, contro il PCI. Nel migliore dei casi si giustificavano lamentando “l’accordo DC-PCI”. I discendenti politici di quelle forze, oggi, si coalizzano e si candidano con un partito (il PD) composto da esponenti del PCI e della DC e che è la principale componente degli attuali, maledetti, governi fondati sull’accordo PD-PDL. Chi scrive è poco istruito ed ha la testa dura, inadatta a sottigliezze e circonvoluzioni concettuali: non ho mai capito perché, ammesso ma non concesso che ci fosse UNA ragione per attaccare (anche fisicamente) il PCI, non ce ne dovessero essere –conseguentemente- DUE per attaccare il PRC e almeno OTTO per l’attuale centrosinistra. In altre parole, non si vede perché i motivi indicati oggi da esponenti del “movimento” o dell’estrema sinistra, per giustificare un atteggiamento quanto meno indulgente e dialogante con il centrosinistra o con Grillo, non dovessero valere a maggior ragione nei confronti del PCI.

3. Noi siamo stati all’avanguardia e tra i più conseguenti nella lotta contro i gruppi dirigenti, opportunisti e liquidatori, del PCI rimanendo coerenti, successivamente, nella nostra intransigenza verso il PDS (e le sue ulteriori evoluzioni fino al PD) ed anche verso il PRC, con il quale -politicamente- non abbiamo mai avuto nulla a che fare. Ciononostante siamo i più strenui, direi unici, difensori del PCI, tanto da indicare la sua ricostituzione come nostra strategia.
Riconosco che non abbiamo mai spiegato per bene, pubblicamente, il rapporto tra queste due nostre caratteristiche.

Quel che più conta, purtroppo, è che i gruppi dirigenti della sinistra (o provenienti da essa) hanno distrutto il movimento operaio italiano così come si era storicamente configurato dalla fine dell’800.
Mentre in tutto il mondo le masse giovanili e proletarie resistono e si organizzano, la lotta di classe incalza sotto diversi profili, forze di sinistra si mostrano in ripresa -dal Brasile alla Turchia, potremmo dire per rimanere alla cronaca più stretta- solo in Italia c’è la calma piatta, il vuoto e l’aridità nella situazione politica e sociale (fermo restando il valore di quelle minoranze di lavoratori che continuano a battersi sia pure isolatamente), l’indebolimento ancora senza fine delle posizioni del proletariato, a fronte del costante aumento della disoccupazione e della miseria, delle angherie e dei soprusi crescenti contro i lavoratori e la gioventù, le conquiste civili, la democrazia. È l’apice, al momento, di ciò che chiamiamo “l’anomalia italiana”. C’è stato un tempo, però, in cui quest’espressione significava esattamente l’opposto. Nel momento in cui la sinistra, il movimento operaio nonché le stesse conquiste sociali e civili rischiano di non avere più futuro, È NECESSARIO TROVARE NELLA STORIA LA LUCE PER RISCHIARARE IL NOSTRO CAMMINO.

L’UNICO PARTITO DELLA CLASSE OPERAIA CHE CI SIA STATO IN ITALIA (fa parziale eccezione il PSI di cento e più anni fa) È IL PCI. Esso nacque nel 1921 ed il primo segretario fu Bordiga, ma la sua vera “sorgente ispiratrice” fu il gruppo torinese dell’Ordine Nuovo, capeggiato da Gramsci, il quale nel giro di due o tre anni assunse la completa direzione del Partito. La vera forza del PCI, tuttavia furono i giovani, numerosi e combattivi come e più degli adulti. La vecchia FGSI (organizzazione giovanile del PSI) si era trasformata, al momento della scissione, nella FGCI (anzi FGCd’I) portando con sé oltre il 90% delle forze. PIETRO SECCHIA era nato nel dicembre 1903 a Occhieppo Superiore (nell’attuale provincia di Biella). Il padre era un bracciante agricolo e la madre un’operaia tessile, morta molto giovane per le sofferenze patite a causa della Prima Guerra Mondiale, durante la quale il marito fu inviato al fronte e non poté più contribuire al sostentamento della famiglia. Per questo Secchia fu costretto ad andare a lavorare -in una fabbrica di cinghie di trasmissione- a soli tredici anni e poco dopo aderì alla FGSI, divenendone dinamico militante. Successivamente fu entusiasta animatore della FGCI, divenendone ben presto dirigente nazionale insieme a Longo, nel fuoco delle ultime disperate battaglie (intese anche letteralmente) contro il fascismo ormai vincitore. Luigi Longo fu comandante delle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola poi comandante generale delle Brigate Garibaldi durante la Resistenza, vicesegretario generale del PCI fino al 1964 poi Segretario generale fino al 1972 e infine Presidente del Partito (tale carica fu istituita per lui) fino alla morte. Egli scrisse di Secchia: “Fu l’anima della Resistenza e dell’organizzazione antifascista in Italia. Lavorava per l’organizzazione giovanile e per quella del Partito, era dirigente e ispettore, giornalista e tipografo, esempio mirabile di fede, di coraggio e di capacità costruttiva”. Fin dai primi anni dopo la loro fondazione, Secchia fu uno dei principali animatori e responsabili della FGCI e del PCI. Nel 1925 fu definitivamente completata l’instaurazione della dittatura fascista e avvenne un fatto poco noto: tale Angelo Tasca, all’epoca componente della segreteria del PCI, convocò una riunione -a suo dire del Comitato Centrale- per ottemperare alle disposizioni del regime, ovvero sciogliere il Partito.

Fu Secchia, insieme ad altri, a promuovere subito dopo una vera riunione del Comitato Centrale nella quale -ovviamente- si decise la prosecuzione ad oltranza della lotta clandestina, della lotta senza quartiere contro il regime e per lo sviluppo ovunque dell’organizzazione di partito nonché si diede seguito alla preparazione del III° Congresso del PCI a Lione (in Francia).
Esso si svolse nel 1926 e fu decisivo perché approvò le “Tesi di Lione” un documento (ed una linea politica) straordinariamente acuto e lungimirante che indicò gli sviluppi dei successivi vent’anni di storia. Tasca, invece, fu successivamente espulso dal Partito e lo ritroveremo -guarda il caso!- una quindicina di anni dopo, sottosegretario del governo Petain, fantoccio francese dei nazisti.
Immediatamente dopo, Secchia lottò vittoriosamente anche contro un’altra parte di dirigenti opportunisti del PCI (trotzkisti) i quali, dietro sofisticate “analisi” intellettualistiche e da posizioni di ultrasinistra, pretendevano di smantellare l’organizzazione clandestina del Partito in Italia riducendolo, così, ad una mera organizzazione di emigrati politici all’estero. In tale quadro, per mantenere viva e combattiva l’organizzazione e la lotta del PCI e della FGCI in Italia, Secchia organizzò la seconda conferenza nazionale (clandestina) delle cellule d’officina, nella quale si trattarono tutte le questioni della condizione operaia e si discusse la possibilità di organizzare squadre di autodifesa operaia contro la vigliacca violenza dei fasciasti e dei padroni.
Soprattutto Secchia fu il principale animatore ed organizzatore (dall’interno del paese ovvero dalla clandestinità) del IV° Congresso del PCI che si tenne nel 1931 a Colonia (in Germania). Esso fu l’ultimo prima della Liberazione e sancì la linea per la quale si era battuto, in prima fila, anche Secchia: la piena coerenza con le posizioni e le lotte dell’Internazionale Comunista e la continuazione della lotta organizzata contro il fascismo principalmente in Italia e nella clandestinità (non solo, quindi, tra gli emigrati all’estero). Nonostante la riuscita del congresso fosse soprattutto merito dell’impegno di Secchia, egli cadde nelle mani dei fascisti proprio pochi giorni prima del suo svolgimento, anche a causa della sua intensa attività preparatoria.

GIÀ NEL 1931, insomma, SECCHIA ERA DA ANNI UNO DEI PRINCIPALI E PIÙ ATTIVI DIRIGENTI DEL PCI. Aveva ventisette anni e rimase prigioniero per dodici. Non si perse mai d’animo e non cessò mai un momento la sua intensa e dinamica attività di lotta, di organizzazione anche dal carcere e tra i detenuti e confinati. Forse fu l’unico, tra i prigionieri politici, a pubblicare perfino un giornaletto satirico carcerario. Era “Il galletto rosso” che stampava e diffondeva con i metodi e le trovate più stravaganti e geniali e con il quale prendeva in giro direttore e guardie carcerarie, oltre che i fascisti. Il suo carattere instancabile e il suo dinamismo perfino frenetico si rifletterono anche nel nome di battaglia che i compagni scelsero per lui: “Botte”, da Bottecchia un ciclista molto noto all’epoca. Nel 1943 -dopo la caduta di Mussolini- fu liberato e andò subito a riprendere il suo posto di lotta nell’Italia occupata dai nazisti. Egli divenne il capo dei commissari politici di tutte le Brigate Garibaldi e ciò merita un piccolo inciso. Nella concezione comunista il numero uno di un reparto o di una forza armata non è il comandante militare ma il commissario politico, tanto che nelle istituzioni borghesi non esiste questa figura (semmai loro hanno il cappellano militare o gli equivalenti di altre religioni). Sebbene non sia mai stata posta una simile questione -tanto meno da lui- vale la pena, oggi, ricordare che il vero capo della Resistenza, per noi comunisti, è stato Pietro Secchia e non altri. Durante la lotta partigiana divenne anche, insieme a Longo, vicesegretario generale del PCI. Dopo la Liberazione il suo prestigio -in primo luogo tra i comunisti ma anche tra le forze antifasciste- era indiscusso e di prima grandezza, meritatamente. Ciò è dimostrato, oltre al resto, da tre fatti molto particolari e significativi, capitati nel periodo immediatamente successivo:

– tra la fine del dicembre 1945 e i primi giorni del 1946, si svolse a Roma il V° Congresso del PCI. Esso terminò con l’elezione del nuovo Comitato Centrale, il quale si riunì per eleggere gli altri organi dirigenti, tra cui Segretario e Vicesegretario generali. A quest’ultima carica fu eletto solo il compagno Longo -per un disguido tecnico, a quanto si disse- e non anche Secchia. Nelle settimane immediatamente successive, tutte le compagne e i compagni del Comitato Centrale ricevettero una lettera personale di Togliatti, nella quale si chiariva che il compagno Secchia non era stato proposto alla carica di Vicesegretario Generale solo per un involontario errore e si chiedeva il consenso -a stretto giro di posta- per considerarlo come fosse stato eletto a tale carica fin dall’inizio.
Nel giro di pochi giorni tutto il Comitato Centrale si dichiarò d’accordo e così Secchia rimase “Vice” di Togliatti nonché responsabile dell’Organizzazione, il compito più importante in un Partito Comunista.

– il 1947 fu un anno di svolta anche se ciò è spesso trascurato dalla storiografia. I paesi imperialisti diedero inizio -anche esplicitamente e formalmente- alla guerra fredda contro l’Unione Sovietica e i Partiti Comunisti di vari paesi. I riflessi di ciò, sul piano nazionale, furono il tradimento dell’unità e della politica antifascista operato dalla Democrazia Cristiana e dagli altri filoamericani con l’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo e l’inizio di un periodo (a cura del famigerato Scelba) di feroce repressione antioperaia e delle più conseguenti forze partigiane e dell’antifascismo. Tutto ciò fu preparato da una visita di De Gasperi (il democristiano capo del governo in carica) negli Stati Uniti, con la quale si predispose -oltre al resto- la completa sottomissione italiana agli interessi statunitensi e la sua riduzione a loro portaerei nel Mediterraneo e a Stato nemico dei paesi dell’est Europa e del socialismo. In tale quadro, Secchia compì un viaggio “segreto” -ormai documentato dagli storici- in Unione Sovietica, dove si incontrò con Stalin, Zdanov ed altri importanti dirigenti del PCUS. Secchia voleva valutare le incognite e le ripercussioni di carattere internazionale delle varie opzioni possibili nella situazione italiana, ivi compresa quella di un’energica risposta ad eventuali disegni reazionari contemplando anche l’insurrezione armata e la conquista del potere politico da parte del proletariato.

Così discussero di problemi nazionali e mondiali e la sintesi, succinta e informale, riferita poi da Secchia, della posizione del grande dirigente sovietico fu: “Non dite che non fate la rivoluzione perché Stalin vi ha chiesto di non farla!”. Questo dettaglio, per inciso, la dice lunga sulle mistificazioni successive -anche della sedicente sinistra antistaliniana- sul Patto di Yalta e sulla presunta complicità dei sovietici (quanto meno di Stalin) con gli imperialisti nel volere un mondo bloccato, senza cambiamenti rivoluzionari né possibilità di emancipazione dei popoli. Il fatto indicativo è che Stalin e gli altri dirigenti sovietici accettarono di discutere, in via separata e riservata, con Secchia di importanti problemi concreti senza coinvolgere direttamente Togliatti o altri dirigenti del Partito. A memoria di chi scrive (salvo più precise verifiche) questo è un fatto più unico che raro nella storia delle relazioni tra partiti comunisti, almeno per quell’epoca.
– dopo il 1947, l’aggressività dell’imperialismo divenne sempre più grave. Fu usata la minaccia atomica (gli USA avevano il monopolio di quelle armi), fu fondata la NATO e avvennero molte provocazioni, come quelle da cui scaturì la guerra civile in Grecia. In tale contesto -essendo stata sciolta l’Internazionale Comunista nel 1943- fu dato vita al Cominform (ufficio di informazione e coordinamento tra partiti operai e comunisti) il quale riuniva il PCUS, i Partiti Comunisti andati al governo in seguito alla guerra antifascista (essenzialmente la cosiddetta Europa dell’Est) e quelli francese ed italiano (i più forti nei principali paesi capitalisti). Stalin propose che a dirigerlo fosse Togliatti e che egli -a tale scopo- si trasferisse a Praga, sede del Cominform (e non a Mosca, come recentemente affermato da Napolitano). Ciò era dovuto a varie ragioni e tra queste, in primo luogo, la grande stima e considerazione di Stalin nei confronti di Togliatti ed in secondo luogo la preoccupazione per la sua incolumità. Togliatti, infatti, era stato vittima di un grave (e noto) attentato nel luglio 1948, peraltro preannunciato, il giorno prima, dall’intervento di un deputato socialdemocratico alla Camera.

Già in quell’occasione Stalin inviò un messaggio non solo di fraterna solidarietà ma contenente anche un’espressione di rincrescimento e di critica perché Togliatti non era stato tutelato e difeso a dovere. In seguito avvenne un oscuro episodio mai chiarito: un colpo d’arma da fuoco contro la sua auto mentre era in viaggio. Infine, un grave incidente automobilistico, nel 1950; fu durante la convalescenza seguita a quest’ultimo che giunse la suddetta proposta di Stalin. La Direzione del PCI si riunì per discuterla e l’approvò all’unanimità meno uno. Quel che più significa in questa sede è che per le circostanze e le condizioni del momento, il trasferimento di Togliatti avrebbe comportato -direi quasi automaticamente- l’elezione di Secchia a Segretario Generale del PCI. Di ciò erano ben consapevoli sia Stalin che la Direzione del Partito. Tutto ciò dimostra che la figura e il ruolo di Secchia non erano affatto insignificanti, come potrebbe ritenere chi ascoltasse la già citata intervista di Napolitano. Al tempo stesso non è sufficiente considerare Secchia solo uno dei molti dirigenti, prestigiosi e di grande valore, del PCI. PIETRO SECCHIA, IN DEFINITIVA, ERA “L’ALTRO” CAPO DEL PCI!

Tuttavia Togliatti declinò quella proposta e tutto continuò come prima. Ancora un inciso: in quel momento, Togliatti si trovava in URSS ma se ne tornò tranquillamente in Italia nonostante si fosse rifiutato di aderire alla proposta di Stalin e questa vicenda -almeno per Togliatti- si concluse così.
Nel 1950, nel quadro della grave situazione accennata in precedenza, avvenne un eccidio di operai in sciopero a Modena. La polizia scelbiana ne uccise ben sei e alcuni di loro lasciarono dei figli piccoli. Questi furono adottati dai principali dirigenti del PCI. Togliatti e Nilde Iotti crebbero Marisa Malagoli Togliatti, divenuta poi una nota psichiatra. Secchia adottò Vladimiro, il quale crebbe con lui e dopo la sua morte lavorò a lungo in un negozio sulla Tiburtina, a Roma. Ricordo con molto piacere una cena in una pizzeria del Tiburtino, con Vladimiro e il compagno senatore Arnaldo Bera, partigiano e deportato dai nazisti, uno dei principali collaboratori di Secchia.
Di Vladimiro tengo ben presente ciò che mi ha raccontato (in vari incontri) ma non dirò altro su di lui per rispettare il suo riserbo.

Il “caso” Seniga. Giulio Seniga era un partigiano militante del PCI. In seguito furono presi in considerazione alcuni viaggi in Svizzera e contatti avuti con i servizi segreti inglesi ed USA durante la Resistenza i quali, inizialmente, non avevano destato i sospetti che avrebbero dovuto. Dopo la Liberazione, seguì Secchia a Roma e gli rimase “appiccicato” per otto anni. Fu nominato viceresponsabile della Vigilanza delle Botteghe Oscure, il grande palazzo sede centrale del PCI. Non era un così importante incarico, Secchia avrebbe avuto la possibilità di nominarlo quantomeno responsabile di quel servizio, se non di più. Tuttavia, forse anche per qualche ingenuità dello stesso Secchia, Seniga si fece passare come “l’uomo di fiducia” di Secchia, il più vicino ad esso. Per anticipare qualcosa sulla vera personalità di Seniga, basti ricordare -per ora- che una quindicina di anni più tardi, dopo la conquista israeliana dei territori occupati, egli fondò l’UDAI (Unione Democratica Amici di Israele).

Seniga abitava vicino a Secchia e lo frequentava molto, facendo leva anche sulle sue competenze nella Vigilanza. Una sera di luglio del 1954 (UN ANNO E QUATTRO MESI DOPO LA MORTE DI STALIN, il dettaglio è decisivo) mentre Secchia era fuori Roma per impegni di partito, Seniga portò il piccolo Vladimiro al cinema Reale, a Trastevere. Gli pagò il biglietto e gli disse di entrare che lui l’avrebbe aspettato fuori quando sarebbe uscito. Dopo il film Vladimiro non trovò nessuno e aspettò un po’ non sapendo bene cosa fare: alla fine riuscì a chiamare dei compagni della Vigilanza che lo portarono a casa. Seniga era sparito. Poi si capì che aveva trafugato dei documenti riservati di Partito e una grande cifra di fondi di riserva, destinati all’impiego in caso di colpo di stato fascista e di cui era politicamente responsabile Secchia. Seniga aveva tradito rubando il malloppo e si rifugiò, inizialmente, a casa di una persona a cui aveva salvato la vita. Durante la Resistenza, infatti, aveva convinto i Partigiani dell’Ossola a non fucilare (nel corso di una rovinosa ritirata) un personaggio da loro ritenuto squallido e ambiguo, con tutta probabilità una spia dei nazisti: si trattava di Gianni Brera, poi divenuto ricco e famoso giornalista sportivo. Degli avvenimenti di quei giorni, non posso fare a meno di ricordare un particolare episodio, secondario. Qualche settimana dopo questa fuga, alcuni uomini del Partito (vicini a Secchia) riuscirono a stabilire un contatto indiretto con Seniga, proponendo un incontro per verificare se c’era la possibilità di un chiarimento. La risposta fu che un incontro si poteva valutare ma a condizione che…. non ci fosse Bera! Ne aveva evidentemente paura.

Mi piace ricordare così il compagno Bera: nato in un paese cremonese (come Seniga), a dieci anni lavorava già -duramente- in una fabbrica di mattoni, poi cercò di raggiungere le Brigate Internazionali in Spagna e quindi fu un dirigente, stimato e prestigioso, del PCI e dell’ANPI e sempre coerentemente vicino a Secchia fino alla fine (la propria). Me lo ricordo, quando a più di ottant’anni veniva da solo a Roma, guidando la sua auto, per incontrarci, al Quarticciolo o altrove. Un “marcantonio” alto, robusto, “roscio”, energico e dinamico, spiritoso, capace di mettere soggezione anche senza volerlo. Mi ricordo, qualche volta, quando alzava la voce e batteva i pugni sul tavolo anche con Cossutta. Fu l’ispiratore e un riferimento morale di “Comunisti Sempre”. Credo che non se la prenderebbe, se mi sentisse dire che è stato anche uno dei principali ispiratori di Iniziativa Comunista. Ma torniamo a Seniga: naturalmente egli “coprì” il suo squallido tradimento con motivazioni di ultrasinistra. Il PCI, a suo dire, non era abbastanza “rivoluzionario” e diversi anni dopo si chiarirà meglio: era un partito troppo staliniano. Fondò un piccolo gruppo di provocatori chiamatosi Azione Comunista e per alcuni anni (almeno dal 1954 al 1956) svolse un’opera di provocazione e disturbo contro il PCI. Lo fece, però, orchestrando le cose in modo tale da far credere -al maggior numero possibile di compagni- che egli fosse in combutta con Secchia. Alla fine del 1956, per fare un solo esempio, si svolse l’VIII° Congresso del PCI: il gruppetto di Seniga riuscì ad infilare, in molte stanze di alberghi e pensioni dove dormivano e delegati, dei volantini firmati “Azione Comunista” i cui contenuti contribuirono a convincere molti compagni in buona fede che dietro ci fosse, appunto, Secchia. Successivamente Seniga divise la sua attività: fondò la casa editrice Azione Comune, per la quale aprì uffici di rappresentanza e corrispondenza in quasi tutte le capitali dell’est Europa (ma guarda un po’!) mentre il suo gruppetto politico si alleò con il GAAP, uno strano gruppo anarchico genovese estraneo alle storiche organizzazioni dell’anarchia. Dalla fusione tra questi due gruppi (verso la fine degli anni ’50) nacque “Lotta Comunista”: sì, proprio quelli che sembrano i testimoni di Geova dell’ultrasinistra.

Molti hanno una visione immaginaria della realtà delle formazioni e dei gruppi (apparentemente) alla sinistra del PCI: pensano si tratti di esperienze successive al 1968, espressione di aneliti incompresi della gioventù e risposta ad una certa deriva riformista del PCI. Alcuni gruppi, invece, provengono da più ben remote fogne della provocazione e dell’intrigo anticomunista, delle incessanti e tortuose macchinazioni degli appositi apparati dell’imperialismo: lo si capirebbe bene, se si potesse conoscere più precisamente la loro storia. Seniga è morto tranquillamente di vecchiaia pochi anni fa e nei trent’anni finali della sua vita ha fatto capire meglio chi fosse veramente, con la sua aperta frequentazione di ambienti borghesi ed anticomunisti. Curiosamente oggi c’è un altro Giulio Seniga nel cremonese, di cui l’infame traditore era il nonno. E’ l’esponente di un improbabile partitino, il PdAC ossia Partito di Alternativa Comunista: è un gruppetto staccatosi tempo fa dal gruppo di Ferrando il quale, a sua volta, fu militante di Lotta Comunista in Liguria circa quarant’anni fa. La fuga e il tradimento di Seniga suscitarono uno scandalo ed un’impressione enormi, nel Partito, anche tra i compagni più vicini a Secchia. Questo effetto era facilmente prevedibile dalle varie centrali della provocazione alle dipendenze dell’imperialismo. Nessuno -naturalmente- osava neanche lontanamente immaginare che il compagno Secchia potesse avervi a che fare. Tuttavia, per la morale e il costume dell’epoca (di per sé sacrosanti e da ripristinare) il solo fatto che egli fosse stato nominato da Secchia ed a questi ritenuto vicino (quindi per una responsabilità indiretta, meramente politica), gettava irrimediabilmente sul povero Secchia un’ombra grave e difficilmente cancellabile.

Ora -dopo decenni di esperienze e un lungo bilancio storico- bisogna dirlo: il compagno Togliatti ne “approfittò” subito! Facendo leva sulla sorpresa e lo sconcerto generali ottenne -immediatamente- la sospensione (tacita) del compagno Secchia da ogni attività operativa ed in seguito la rimozione dalle cariche di vicesegretario generale e di responsabile dell’Organizzazione. Due anni dopo fu nominato segretario regionale della Lombardia ed in questo periodo si scontrò con un giovane “rinnovatore”: Armando Cossutta. Successivamente, fu estromesso anche dalla Direzione del Partito e -dal 1956- rimase, fino alla morte, membro del Comitato Centrale e Senatore, ricoprendo la carica di Vicepresidente del Senato, la più prestigiosa occupata all’epoca da un comunista. Ciò perché, comunque, il prestigio e i meriti del compagno Secchia erano enormi, non si poteva separare la sua figura dal PCI ed infatti la sua emarginazione non fu mai politicamente motivata o dichiarata. Come si è già detto, Seniga fece per alcuni anni la sua parte, per favorire il più possibile la emarginazione del compagno Secchia: scriveva contro Togliatti ma si comportava, dolosamente, in modo da impedire che tante compagne e compagni reagissero tempestivamente alla sua estromissione intendendone correttamente il vero significato politico e le conseguenze che poteva avere. Una volta ottenuta la non rielezione di Secchia nella Direzione del Partito, per l’appunto quel traditore distolse la sua attività dal gruppo di Azione Comunista e continuò altrove il suo lavoro di provocatore.

La verità sul caso Seniga. Il compagno Orlando Lombardi fu una figura significativa del PCI e della sua storia: incarnò insieme il tipico proletario romanesco e la limpida figura del militante comunista. Fu Partigiano, operaio della ex OMI licenziato per rappresaglia politica, dipendente della Vigilanza di Botteghe Oscure, lungamente segretario della sezione del PCI della Garbatella e poi del PRC, sempre del noto quartiere popolare romano. Aveva un forte carisma e godeva di grande popolarità: ciononostante, ad onorare la sua caratteristica personalità, non volle mai candidarsi alle elezioni. Nel 1950 (negli anni seguenti) lavorava già alle Botteghe Oscure ed il suo viceresponsabile era, dunque, Seniga. Poco più di venti anni fa, ebbe modo di parlare con due giovani militanti comunisti alla Garbatella, nella “Villetta”, la storica sede comunista del quartiere, poi parzialmente assegnata al PRC. Egli raccontava (sessantenne) alcuni momenti della sua gioventù e pervenne così ad un episodio che considerava strano. Disse che lui ed altri giovani compagni della Vigilanza si erano accorti, approssimativamente nel 1952, che quel Seniga era un po’ strano: in particolare, di nascosto, metteva alcuni fili nelle stanze di certi dirigenti del Partito. Alla fine, anche su consiglio degli altri, si decise di andare a parlarne direttamente con Togliatti.

Il Segretario lo ascoltò con attenzione, lo ringraziò per la sensibilità e si raccomandò, molto caldamente, di non riferire assolutamente a nessuno quanto gli aveva detto, ci avrebbe pensato lui. Tuttavia non successe nulla, fino alla fuga. Chissà se il compagno Lombardi ha avuto modo di riflettere a fondo e cogliere tutte le implicazioni di questo suo lontano ricordo.
Secchia, per lo meno, non era il solo a portare l’indiretta responsabilità (solo morale o politica) del tradimento di Seniga. In altri termini, quell’infame era stato solo un pretesto per una rimozione premeditata, avente una causa e degli obiettivi politici. Il “rinnovamento”. In realtà, la liquidazione politica di Secchia aveva iniziato un biennio (successivo alla morte di Stalin, non dimentichiamolo) durante il quale furono rimossi -con motivazioni gratuite o pretestuose- molti dirigenti di vari Partiti Comunisti, soprattutto nei paesi in cui questi erano al potere. Ciò fu causa di molti inconvenienti ed errori che ne seguirono (a cominciare dall’Ungheria ed in seguito la Polonia). Anche in Italia fu così. L’estromissione di Secchia fu seguita (non subito ma dopo due o tre anni di attesa) da una lenta, prudente ma sistematica rimozione -a tutti i livelli- di quelle compagne e compagni espressione della più profonda e radicata storia del PCI, della sua natura di classe, internazionalista, rivoluzionaria. L’espressione più autentica dell’identità del PCI dell’epoca.

Tale processo non fu istantaneo ma diluito, almeno, in un decennio ed ebbe come bersagli, in conclusione, coloro che, con superficiale semplificazione giornalistica, si potrebbero definire gli “uomini di Secchia”. A livello centrale fu emarginato anche Edoardo D’Onofrio, storico leader popolare romano, il compagno Scoccimarro fu destinato alla Commissione di Controllo, ecc. A Roma il Segretario della Federazione Otello Nannuzzi fu sostituito da Aldo Natoli (il quale, tredici anni più tardi, sarà non a caso l’ispiratore del gruppo “Il Manifesto”). A Milano, invece, c’era Giuseppe Alberganti “Cristallo”, un ex ferroviere quasi leggendario tra gli operai della più importante città industriale: egli fu bruscamente sostituito da Armando Cossutta, all’epoca trentenne, il quale provvide, negli anni successivi, al “rinnovamento” della sua Federazione. Alla fine degli anni ’60, non c’era più nessun “uomo di Secchia” tra i Segretari regionali e di Federazione (quasi lo stesso può dirsi per le relative segreterie) e nessuno dirigeva alcun settore di lavoro o ricopriva altri incarichi di carattere operativo; ve ne erano pochissimi nel Comitato Centrale, alcuni negli organismi dirigenti di Federazioni e comitati regionali, quasi nessuno in Parlamento o nei vari enti locali.

AGLI INIZI DEGLI ANNI ’70, ALLA VIGILIA DELL’ELEZIONE DI BERLINGUER A SEGRETARIO GENERALE, GLI ORGANISMI DIRIGENTI DEL PCI ERANO GIA’ STATI “BONIFICATI”. Il compagno Secchia fu travolto, comprensibilmente, da una insopprimibile amarezza: aveva appena cinquant’anni quando fu colpito dal tradimento. A cinquant’anni era -in buona sostanza- già un pensionato. Tuttavia non si dedicò solo alla scrittura, alla ricerca storica sulla Resistenza, alla polemica politica (soprattutto per difendere e valorizzare la Resistenza).
Svolse fino in fondo tutti i suoi compiti parlamentari e di Partito: non a caso, egli arrivò perfino a sospettare l’esistenza della Gladio e a denunciare quanto sapeva e temeva apertamente in Senato, già alla fine degli anni ’60. Comincia ad essere più chiaro perché si sono resi necessari il buio e il silenzio assoluti su di lui. Altrimenti la sua figura, opportunamente manipolata e strumentalizzata, poteva essere usata nelle continue campagne di mistificazione e denigrazione della storia del PCI, come si fa con tante altre compagne e compagni. Allo stesso modo continuò il suo impegno internazionalista, visitando molti paesi esteri anche come rappresentante ufficiale del PCI. Per dirne solo una, nel 1969 andò in Giordania ad incontrare i dirigenti di Al Fatah. L’assassinio di Secchia. Nel suddetto quadro, il 1 gennaio 1972 Secchia partì per il Cile: doveva rappresentare il PCI alla grande manifestazione popolare convocata per celebrare il cinquantenario della fondazione del Partito Comunista Cileno (PCCh). Per l’occasione, si intrattenne una settimana per incontrare Luis Corvalan (glorioso Segretario del Partito Cileno, il quale, appena l’anno dopo, sarà imprigionato e torturato dai fascisti di Pinochet) e altri compagni e discutere i gravi problemi del momento. Il compagno Secchia, per la sua stessa storia ed esperienza personale, era molto esperto in materia di lotta antifascista (anche sul piano militare, di vigilanza, di contrasto alle macchinazioni e provocazioni dei vari apparati imperialisti preposti a tali compiti). Tutta l’America Latina all’epoca era sotto il tallone di dittature fasciste o, in pochi casi, di governi reazionari ed antipopolari (salvo Cuba naturalmente).

In Cile, invece, da due anni era stato eletto il governo di Unidad Popular (comunisti, socialisti ed altre forze progressiste) presieduto dall’eroico Salvador Allende. Esso subiva continuamente la reazione, rabbiosa ed accanita, della borghesia nazionale e dell’imperialismo USA. Per motivi immediati e particolari: prima di tutto gli interessi di alcune multinazionali statunitensi, specie telefoniche (come la ATT) le quali si procuravano il rame necessario per i loro impianti principalmente nelle miniere cilene e sentivano minacciati i loro profitti dal governo di sinistra.
Per ragioni più generali e soprattutto di carattere continentale (ma non solo) non si poteva tollerare quell’esempio di libera e democratica decisione di un popolo, di governo non obbediente alle esigenze del profitto e della strategia nordamericana. Già al momento della visita di Secchia la tensione era molto forte, il pericolo di un colpo di stato fascista era all’ordine del giorno, come le provocazioni e gli intrighi della borghesia e delle multinazionali: più tardi si capì che era già iniziato il piano, ordinato dagli USA, per rovesciare il governo popolare democratico. Circa un anno e mezzo dopo, infatti, il generale fascista Pinochet prese il potere, uccise Allende (e una settimana dopo anche Pablo Neruda), compì una strage di democratici e di lavoratori, riempì in una notte l’intero stadio di Santiago del Cile di compagni rastrellati e poi (nella maggior parte) massacrati o torturati e diede inizio ad una delle più sanguinarie e feroci dittature, con migliaia di “desaparecidos” e campi di concentramento e di tortura sempre affollati. L’11 gennaio Secchia rientrò a Roma ed il 13 ebbe un malore (come mai era capitato prima). Il 16 il dottore volle farlo ricoverare in clinica e dopo pochi giorni era già tutto chiaro. Non mancò chi parlò di cirrosi epatica (ipotizzando che fosse latente o comunque “nascosta”) cercando di farlo passare per un vecchio ubriacone. Tuttavia, famosi specialisti e diversi primari degli ospedali romani, diedero un parere unanime: Secchia era stato recentissimamente intossicato.

I sintomi ed altri riscontri indicavano senza ombra di dubbio una sola motivazione: egli era stato colpito dagli effetti di una particolare tossina, la quale, a dieci e più giorni dal presumibile momento dell’assunzione, non era più rintracciabile nel suo organismo, sia perché questa era una caratteristica della tossina stessa, sia perché Secchia, inizialmente, era stato curato con molti antibiotici.
“Intossicazione”, dissero i vari professori, ricorrendo a un termine tecnico, neutro che tradiva una certa prudenza, se non paura. Ciò significava -in sostanza- che era stato avvelenato e necessariamente in Cile. Il prof. Ettore Biocca era un compagno ed uno scienziato militante, uomo della Resistenza molto vicino a Secchia. All’epoca era docente di parassitologia all’Università di Roma ma in passato era stato ricercatore, alle dipendenze dell’ONU, in Sud America. Egli dimostrò che in quel continente cresce un fungo (sconosciuto in Europa ma non alla CIA) la cui principale caratteristica è di contenere (in notevole dose) la tossina con cui era stato avvelenato Secchia. Egli spiegò personalmente, già nel gennaio del 1972, al compagno Bufalini -il quale si era giustamente interessato della questione per conto della Segreteria del Partito- quanto sapeva su come la CIA agiva, preparando un potente veleno (particolarmente adatto ai loro scopi perché difficilmente lasciava tracce prolungate) in appositi laboratori con tale fungo, per assassinare senza scrupoli quando era il caso. Ecco perché tanti professori -onestamente- ammettevano “l’intossicazione” ma si fermavano lì, per non dire “avvelenamento” cioè assassinio! Si spiega, così, anche la faccia tosta di chi, sia pur minoritario ed isolato, non si vergognò di insinuare che il compagno Secchia era un alcolizzato: se era cirrosi epatica (“nascosta”) non era avvelenamento e la CIA era a posto!

Il compagno Biocca, oltre venti anni fa, mi mostrò personalmente l’Istituto di Microbiologia -entrando alla Sapienza da piazzale Aldo Moro, si percorrono poche decine di metri ed è un edificio sulla sinistra, al quale si accede salendo alcuni gradini- indicandomi dove erano depositati i reperti concernenti l’omicidio di Secchia. Tanto era chiara la questione dell’avvelenamento (nonché della responsabilità della CIA) che se ne discuteva apertamente, fin da subito, negli ambienti di Partito. Il compagno Bufalini, per esempio, chiese: “Perché proprio a lui?” Intendeva: potrebbe essere un avvertimento della CIA, ma perché lui? Domanda un po’ ingenua e inconcludente, anche perché era facile rispondere che in quel periodo, in Sud America (precisamente in Cile) era andato proprio Secchia e solo lui: se fosse andato un altro compagno, forse, sarebbe toccato a quello. In un primo momento Secchia sembrò disposto a credere (senza esserne troppo convinto) che la causa del suo avvelenamento fosse “interna” alla situazione cilena. “Chissà cosa hanno creduto che fossi andato a fare” disse, alludendo alla CIA, nei primi mesi di malattia.

La mia modestissima opinione personale è che Secchia (come chiunque altro) non potesse avere, nel 1972, la visuale sufficiente ad inquadrare le motivazioni e gli obiettivi del suo omicidio. Ciò risulta molto più facile a noi, adesso, “dall’alto” di quarant’anni di storia successiva e di verità tardivamente scoperte. Innanzitutto l’avvelenamento poteva conseguire la morte quasi istantaneamente o nel giro di poche settimane. Solo per la sua forte tempra e per le buone cure ricevute, Secchia sopravvisse un anno e mezzo (sia pure in costante peggioramento). In ogni caso la data della sua morte, “ritardata” di oltre un anno non cambia molto la questione. Tuttavia, non si può non rimanere impressionati dalla coincidenza temporale con un’altra scomparsa troppo sottovalutata dalla storiografia: la morte del compagno Gian Giacomo Feltrinelli, avvenuta a Segrate (MI) l’11 marzo 1972. Egli fu un caso più unico che raro poiché, nonostante fosse un miliardario (in lire), fu un vero compagno, quasi del tutto esente dai vizi della borghesia e degli intellettuali. Agiva in prima persona e pagava direttamente le sue scelte. Aveva dato, fin dal dopoguerra, un enorme contributo al movimento operaio sul piano culturale e reso la sua casa editrice un valido strumento dalla nostra parte, per la lotta di classe. Non contento di ciò, fu un sincero militante comunista, sempre molto legato a Secchia verso il quale nutriva grande rispetto e stima. Anche negli ultimi anni della sua vita, nonostante avesse compiuto delle scelte politiche un po’ stravaganti e non sempre condivise da Secchia e dai suoi. Mi hanno raccontato che un paio di volte, nella seconda metà degli anni ’60, andò a trovare furtivamente Secchia dopo essersi travestito di tutto punto, rendendosi veramente irriconoscibile, salvo che per la voce.

Nel novembre del 1956, come in molte altre città italiane, una masnada di fascisti (spalleggiati da gruppi di delinquenti) tentò -inutilmente- l’assalto alla sede lombarda e milanese del PCI, con il pretesto dei fatti d’Ungheria. Respinto l’assalto, i compagni si barricarono nella palazzina del Partito, pronti a difendersi nonostante la grande disparità numerica: c’erano Secchia (segretario regionale), Cossutta (segretario provinciale) e poche decine di compagni, tra cui Feltrinelli.
Fuori i fascisti, minacciosi, circondavano l’edificio. Feltrinelli fu colto da un impeto di “buonismo dialogante”, disse che in fondo -là in mezzo- c’erano dei giovani anche in buona fede che bisognava strappare ai fascisti. Provò ad uscire dalla porta, da solo e disarmato, con l’ingenuo scopo di andare a parlare con quelli: fatto il primo passo fuori, fu colpito da una sassata alla fronte e riuscì a malapena a rientrare in Federazione sanguinante. Furono chiamati gli operai delle fabbriche più vicine che arrivarono alle spalle dei fascisti, mentre i compagni della Federazione uscirono, attaccandoli di fronte: in pochi attimi fu fatta piazza pulita di tutti quei buffoni e quindi arrivò la polizia “per sedare i tumulti”. I vecchi compagni mi ricordavano questo episodio con bonario affetto nei confronti di Feltrinelli, per sottolineare come fosse di sentimenti semplici quanto sinceri. Egli non aveva nulla a che fare con il terrorismo né con gran parte delle menzogne che sono state raccontate su di lui. Secchia lo sapeva bene e fu tra i primi a capire (benché non fosse ancora sicuro del suo destino) che quello di Feltrinelli era un assassinio politico. Secondo la sceneggiata dell’epoca, Feltrinelli sarebbe andato da solo, nottetempo e senza dire nulla a nessuno, a mettere una bomba sotto un traliccio dell’alta tensione in aperta campagna, nei pressi di Segrate, probabilmente per abbatterlo. L’ordigno gli sarebbe esploso in mano uccidendolo: con l’esperienza di oggi, non serve sprecare tempo per confutare una simile montatura! Comunque ho raccolto una testimonianza secondo la quale, la stessa notte, gruppi di sconosciuti cercarono di rapire altri noti esponenti di quell’area (nella quale possiamo, per comodità di espressione, comprendere Secchia, Feltrinelli, ecc.): forse per far compiere altri “attentati” anche a loro! Vale la pena ricordare che la morte di Feltrinelli, la quale suscitò enorme impressione e scalpore, avvenne alla vigilia dell’apertura -proprio a Milano- del XII° Congresso Nazionale del PCI. Fu quello che elesse Enrico Berlinguer Segretario Generale e che avrebbe potuto svolgersi, come si è detto, senza che Pietro Secchia fosse ancora in vita.

Per avere un’idea del clima politico di quegli anni, basterà ricordare che Berlinguer, nelle conclusioni del Congresso (quindi non sussurrandolo in uno scantinato tra pochi intimi), minacciò di rompere la testa (letteralmente) alla Democrazia Cristiana e di ricorrere all’insurrezione armata in caso di colpo di stato fascista o tentativi similari. Il pericolo di un colpo di stato, all’epoca, era tale che se ne parlava apertamente, era oggetto anche di discussioni comuni tra la gente. Le solenni promesse di Berlinguer non erano certo come le ridicole minacce di quella macchietta di Umberto Bossi, tanto è vero -ormai è definitivamente accertato anche in sede giudiziaria- che i capi della mafia rifiutarono di appoggiare tentativi golpisti, nonostante tanti favori e colpi di spugna loro promessi, per paura della reazione del PCI a tali tentativi. LA QUESTIONE DI QUALI FOSSERO I REALI SCOPI DI FONDO DELL’OMICIDIO DI SECCHIA, QUINDI, È TUTTA DA CHIARIRE E DI GRANDE INTERESSE ATTUALE. Facciamo -solo per un attimo e senza prenderci gusto- la storia con i se e con i ma: senza l’estromissione di Secchia dalla vita del Partito, nel 1954 a soli cinquant’anni, sarebbe stata diversa la storia del PCI nei vent’anni successivi, a cominciare dal fatto che sarebbe stato lui il successore di Togliatti nel 1964 (avrebbe avuto 60 anni). Sarebbe stata ancor più diversa la storia del PCI e dell’Italia (e non solo: non avremmo avuto “l’eurocomunismo”) se Secchia avesse potuto vivere fino -per fare un esempio- all’età attuale del nostro Presidente della Repubblica, ossia fino al 1992. Napolitano si mostra lucido, in buona salute, e Secchia mostrava tutte le possibilità per poterlo essere altrettanto (come dimostra la sua forte resistenza e la lucidità mantenuta dopo l’avvelenamento). CERTAMENTE NON SAREBBE STATO SCIOLTO IL PCI!

Per tornare alla realtà, rinuncio a ricordare i quindici mesi finali della vita di Secchia. Solo per non essere più lungo perché furono densi di riflessioni molto importanti e di avvenimenti molto toccanti: sia perché lui era ormai consapevole della fine che lo attendeva, sia per le dimostrazioni di forza ma anche di affetto e di profonda umanità che gli furono tributate. Solo per dirne una, a un certo punto, i Partigiani del Monte Rosa (e altri) lo presero “in custodia” e non lo lasciarono più solo, con squadre a turnazione. Il 7 luglio 1973 il suo forte cuore e la sua mente indomabile si spensero. Per il figlio Vladimiro, in un certo senso, Secchia morì ancora una volta poco tempo dopo: quando i compagni Pecchioli e Cossutta, purtroppo, gli comunicarono definitivamente che la Direzione del Partito non intendeva far nulla per denunciare l’omicidio di Secchia e trarne tutte le varie conseguenze, in primo luogo politiche.

Vale la pena infine ricordare che il 1992-’93 (proprio gli anni nei quali avrebbe potuto ancora essere vivo Secchia) avvennero nel nostro paese fatti molto gravi e torbidi. Non si tratta solo dei gravi omicidi e stragi mafiose e della trattativa stato-mafia (di grande importanza attuale anch’essa) ma anche della scoperta della cosiddetta Gladio, tentacolo del progetto Stay Behind (stare dietro) derivato, a sua volta, dal programma Demagnetize (smagnetizzare). Quest’ultimo fu uno dei primi progetti della CIA su incarico dei circoli imperialisti USA, venendo poi assegnato alla NATO. La Gladio fu scoperta non in modo limpido e lineare ma grazie ai soliti intrighi e criminali guerre di potere all’interno dello stato. Quel che conta, in questa sede, è che in un primo momento Andreotti confessò che la Gladio era esistita ma “era stata sciolta vent’anni fa”. Ciò risultò, ben presto, assolutamente falso; tuttavia significa anche che Andreotti (e chi per lui) poteva -in un certo senso- rivendicare quanto compiuto da questi apparati (e probabilmente anche altri più o meno connessi a loro) fino a vent’anni prima. Cioè fino al 1972, anno nel quale vennero assassinati Secchia (benché il suo fisico avesse poi resistito in modo forse imprevisto) e Feltrinelli. Strana coincidenza. Soprattutto perché Secchia era arrivato vicino alla Gladio, come già detto, ben prima di “vent’anni fa”.

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