SULLA CRISI STRUTTURALE DELLA SINISTRA
Il 2 febbraio il compagno Gordan Stosevic mi ha contattato per pormi alcune domande sull’attualità politica italiana ed internazionale, concentrando l’attenzione sulle problematiche riguardanti il movimento comunista. L’intervista sarebbe dovuta uscire sul suo sito Ilgridodelpopolo.com; Stosevic si è visto però impossibilitato a pubblicare il pezzo in questione dato che il suo sito è stato nel frattempo oggetto di un attacco informatico.
Abbiamo convenuto assieme di darne quindi pubblicazione sul seguente portale.
Alessandro Pascale
– Per iniziare l’intervista, la sinistra vive più una crisi ideologica o politica oggi?
– Innanzitutto intendiamoci sul significato del termine “sinistra”, espressione che nel senso comune è ormai associata ad una visione liberista e liberale che nei migliori casi ha leggere sfumature di socialdemocrazia ma che è strutturalmente incapace di mettere in discussione il sistema vigente. Questa “sinistra” così intesa ha ancora un suo seguito di massa ma è palesemente in crisi, anche se continua ad essere considerata un argine contro il “ritorno del fascismo”, presunto o reale che sia. Distinguerei tra persone e gruppi organizzati che si sentono interiormente dalla parte del progresso sociale ma che mancano degli strumenti ideologici per comprendere l’inadeguatezza della propria proposta politica, da persone e gruppi che invece utilizzano strumentalmente l’identità di sinistra per introdurre idee e temi storicamente appartenenti alla destra. Questi ultimi, ossia la destra che si camuffa da sinistra, sta tutto sommato bene, dato che il suo obiettivo principale è quello di impedire il risorgere di una coscienza di classe anticapitalista. Mi sembra di poter dire che la crisi dei primi, ossia della “vera” sinistra, sia figlia di una dialettica figlia di una serie di rigetti ideologici e politici che si sono stratificati nel tempo. Se dovessi identificare il “peccato originale”, direi che la crisi ideologica della sinistra parte dalla destalinizzazione del 1956. Da lì è iniziata l’opera di smantellamento progressivo della teoria di riferimento. In URSS e in Occidente nel giro di poco più di 30 anni si è passati dall’egemonia del marxismo-leninismo al ripudio completo delle teorie di Marx ed Engels, a favore del ritorno in grande stile di un “liberalismo” sempre più restio al compromesso sociale e improntato in senso elitario. La “fuga” dal marxismo è un atto sciagurato che ha fatto regredire culturalmente e politicamente l’intero movimento progressista occidentale. Senza pensare di poter tornare esclusivamente alla teoria ancora dominante nel 1956, sarebbe necessaria un’opera di aggiornamento critico delle categorie marxiste-leniniste, che nel complesso restano ancora valide per interpretare la realtà e offrire soluzioni pratiche per il presente. Mi sembra però che siano tuttora in pochi, e in settori ancora marginali, a prendere sul serio questo compito.
– Quanto è stata ripida la parabola discendente della sinistra italiana a partire dalla fondazione del Partito Comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 fino ad oggi?
Il PCd’I, poi PCI, ha costituito la parte più avanzata e progressiva del paese almeno fino alla metà degli anni ’80. In realtà la storia iniziale è drammatica: appena nato il partito è funestato quasi subito dall’avvento del fascismo ma ciononostante, pur in condizioni tragiche, il PCd’I ha svolto per tutto il ventennio di Mussolini una funzione indispensabile di testimonianza, organizzazione e formazione di quadri, senza la quale la resistenza partigiana antifascista, e quindi l’opzione repubblicana, probabilmente non sarebbero esistite. All’interno del “partito nuovo” di Togliatti si possono trovare le prime incrinature che riguardano l’aspetto ideologico, con l’avvento della “via italiana al socialismo”: sul breve termine sembrava la strada giusta per adattare il marxismo-leninismo (nonché il gramscismo) al contesto di una democrazia liberale occidentale, ma sul lungo termine ha dato luogo a problematiche strutturali di cui forse lo stesso Berlinguer non è stato pienamente consapevole. Mi pare che sia sotto la sua segreteria che maturino i primi grandi segnali di cedimento ideologico e politico (si veda in particolar modo il triennio 1976-79) che pongono le premesse degli sviluppi conseguenti. Per quanto non fosse nelle intenzioni dello stesso Berlinguer, l’applicazione pratica dell’eurocomunismo, della politica del compromesso storico, del cedimento sulle categorie economiche, ecc., apre le porte all’abbandono del paradigma comunista e marxista, che si concretizza già prima della svolta della Bolognina. La parallela crisi dell’URSS e l’avvento della perestrojka di Gorbacev hanno favorito e accompagnato questi processi, relegando il marxismo ad una nicchia (il PRC) che per qualche anno ha potuto mantenere una certa presenza politica in un certo senso “vivendo di rendita”, pur risultando anch’esso in parte subalterno alla cultura socialdemocratica e borghese, e quindi incapace di adempiere effettivamente al proprio scopo: rifondare una teoria e una prassi comuniste all’altezza della nuova epoca.
– Nelle elezioni del marzo 2018, la sinistra italiana ha preso 320,500 voti con Potere al Popolo, ovvero l’1,06% e 101,650 voti con il Partito Comunista, ovvero il 0,34% per un totale di 422,150 voti ovvero l’1,4%, mentre nelle elezioni europee del maggio dell’anno scorso “La Sinistra” ha preso appena l’1,75%. Questo dovrebbe indicare che la sinistra deve riformarsi prima di sparire dallo scenario politico?
– Una ricostruzione è sempre più difficile di una costruzione ex novo, perché occorre prima sgombrare il campo da tutte le macerie che ostacolano i lavori. Dato che negli ultimi 30 anni i comunisti non sono riusciti, e molti in verità non si sono neanche posti il problema, a eliminare queste macerie, queste sono rimaste e continuano tuttora a intralciare progetti più interessanti di ricostruzione. Il vecchio sta lentamente morendo ma il nuovo fa chiaramente fatica a sorgere, ostacolato non solo dalla concorrenza a sinistra, ma anche dal consolidamento di un pensiero unico, un vero e proprio totalitarismo “liberale”, che attraverso diversi fattori e strumenti sta facendo regredire culturalmente e politicamente non solo il movimento operaio, ma l’intero popolo italiano. Ci sono docenti accademici che parlano di un strutturale declino dell’intera civiltà occidentale. È evidente che in un simile contesto occorra interrogarsi su come riuscire a ricostruire un’organizzazione in un contesto inedito anche rispetto ad un secolo fa: le questioni teoriche sono questioni organizzative, e quindi politiche. Le soluzioni offerte dal PC e da PaP sono parziali, anche se mi sembra che soprattutto i primi vadano nella direzione migliore, perché hanno compreso l’importanza di rinsaldare i ranghi attraverso una stretta formazione capace di costruire militanti, molti dei quali giovani, consapevoli dei tempi lunghi che li aspettano per l’affermazione di pratiche egemoniche nella società. Per quanto la nostra natura umana, ed ancor più quella “ribellistico-chialistica”, sia portata a valorizzare la dimensione del presente, bisogna essere consapevoli che oggi la gramsciana “guerra di posizione” è molto più difficile rispetto al passato. Occorre puntare sui giovani, mostrandogli un percorso di uscita dall’alienazione di massa imperante, in ultima istanza il vero motore del controllo sociale da parte del regime.
– Nelle recenti elezioni regionali tenutesi nella “rossa” Emilia-Romagna, terza regione per potenza economica in Italia, hanno vinto gli apologeti del grande capitale. Anche La Repubblica ha sottolineato come “Stalingrado non è caduta” ma è stata difesa, cosa vedi in queste esultanze e gioie della falsa sinistra?
– La sinistra “liberal” del PD è riuscita a guadagnare un po’ di ossigeno ravvivando il terrore verso un avversario politico che in questo caso avrebbe potuto giocarsela meglio, e che ciononostante ha aumentato notevolmente i propri consensi. A me sembra che la “Stalingrado” del centro-sinistra in Emilia Romagna sia una classica vittoria di Pirro se la consideriamo come il punto di svolta per fermare il ritorno al potere dell’altra destra, per capire la quale consiglierei la solida e minuziosa analisi realizzata da Matteo Luca Andriola nella II edizione di La nuova destra in Europa1. Credo che i “democratici” siano contenti soprattutto per il fatto di aver ripristinato la propria egemonia nell’area politica progressista, emarginando la scheggia impazzita del M5S e impedendo finora il sorgere di una seria alternativa anticapitalista alla propria sinistra. Il movimento delle sardine, pompato e strumentalizzato ad arte dai media e dai “democratici”, è stato peraltro inconsapevolmente (per la gran parte dei partecipanti) funzionale a questi obiettivi. Conquistando il fittizio titolo di pilastri dell’opposizione a Salvini, i “democratici” si sono garantiti altri anni di sopravvivenza politica, per la gioia dei salotti buoni di Confindustria, che sanno di poter scegliere tra due blocchi politici strenui difensori della struttura capitalistica.
– Mao ai suoi tempi riteneva che, a differenza del “capitale politico”, il capitale economico non dovesse essere completamente soggetto all’esproprio fin quando può essere utile allo sviluppo economico nazionale. Questo modello è stato fatale per i paesi del Sud America, permettendo il ritorno della borghesia al potere?
– Nessun paese dell’America latina, salvo Cuba, è uscito dalla sovrastruttura della democrazia liberale borghese. La storia dell’ultimo secolo mostra bene che un governo progressista sia facilmente destabilizzabile dall’imperialismo, nel caso in cui non si vadano a toccare i capisaldi strutturali del sistema politico, economico e militare.
Già Marx e Lenin hanno spiegato a lungo come non si possa governare un paese rimanendo all’interno delle sovrastrutture politiche borghesi. La borghesia tende naturalmente alla propria autodifesa con ogni mezzo, finanche rivolgendosi a potenze straniere e alla sovversione interna. La stessa esistenza di uno spazio temporaneo lasciato al capitalismo “privato” ha senso solo se in condizioni particolari, tra cui la presenza di una borghesia progressista e patriottica capace di guardare al di là del proprio portafogli. Anche in questo caso però permane sempre il rischio di un’involuzione controrivoluzionaria, perché in ultima istanza il potere politico si regge sulla capacità di garantire l’ordine pubblico e un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. La borghesia, sia essa intesa come la ristretta élite che guida le grandi multinazionali, sia come la nutrita schiera dei piccoli commercianti interessati a tutelare le proprie botteghe, costituisce sempre una potenziale fonte di disturbo cultural-politico e può, alla prima occasione propizia, mutare facilmente la propria opinione appoggiando un governo che ne garantisca meglio gli interessi di classe.
L’errore dell’America latina e più in generale del “socialismo del XXI secolo” è stato lo stesso della “via italiana al socialismo” rimodulata da Berlinguer: aver pensato di poter procedere ad un riformismo strutturale in un contesto internazionale ancora segnato dall’imperialismo e da strutture politiche ed economiche congegnate a misura della borghesia.
– Žižek afferma che la sinistra non è mai stata così lontana dagli interessi dei lavoratori come negli ultimi decenni. A cosa è dovuto questo disorientamento della sinistra moderna?
È evidente che la degenerazione ideologica che ha colpito la sinistra negli ultimi decenni non può essere spiegata in termini culturali. La guerra di posizione tracciata da Gramsci, che necessita della costruzione di un partito di massa, pone la questione antica della necessità di evitare una degenerazione interna alla stessa organizzazione. Nel momento in cui un’organizzazione politica di classe intende l’egemonia come la conquista della maggioranza degli elettori, sarà portata a cercare alleanze sociali che rischiano di snaturarne il progetto originario. L’ingresso di elementi borghesi, quantunque i più progressisti possibili, sul lungo termine ha condotto ad una burocratizzazione della politica, ridotta allo stato odierno: lotta di clientele (mafie comprese) e interessi di parte, volontà apparentemente interclassista ma nella sostanza filo-borghese. L’introiezione del pensiero borghese si spiega quindi anche con la mutata composizione sociale interna alle organizzazioni comuniste. L’accettazione della democrazia liberale borghese e il conseguente rigetto dell’ottica rivoluzionaria hanno insomma finora avuto come risultato l’approdo ad una tendenza interclassista. A pensare che lo Stato possa fare gli interessi di tutti sono stati Adam Smith, Hegel, la dottrina cattolica, il fascismo, ecc., ma non certo Marx ed Engels. Alla fine si ricade sempre lì: la lezione dei classici resta fondamentale e l’averli dimenticati o rigettati è all’origine dei disastri attuali. Un partito non può rafforzarsi se non riesce a costruire un blocco sociale consapevole di queste dinamiche. Un partito comunista non può crescere da un giorno all’altro in un contesto di pace sociale segnato dal trionfo della “modernità liquida”. Questa è una fase in cui occorre avere pazienza, rafforzare l’organizzazione e aumentare la propria consapevolezza individuale, per sforzarsi di far crescere un intellettuale collettivo di avanguardia che abbia l’ambizione a diventare di massa. Non c’è bisogno di essere Nostradamus per prevedere che nuove crisi colpiranno il capitalismo nei prossimi anni. La crisi è una componente strutturale di tale sistema economico. È durante le crisi che l’essere umano medio cambia più facilmente idea. Le forti fluttuazioni politiche dell’ultimo decennio che hanno sconvolto gli equilibri italiani ed occidentali mostrano la tendenza ad una sempre maggiore instabilità. Questo è il momento in cui occorre accumulare le forze sufficienti per poter esplicare un’azione egemonica di massa nella crisi che verrà.
– Il Parlamento Europeo, l’anno scorso a settembre, ha emanato una risoluzione in merito all’importanza del ricordo europeo per il futuro dell’Europa. La risoluzione con la quale si mettevano sullo stesso piano il comunismo e il nazi-fascismo come due regimi totalitari, si glorificano allo stesso modo le loro vittime e in cui si richiede il riconoscimento dei loro crimini. La risoluzione inoltre richiede il divieto di entrambe le simbologie negli spazi pubblici. Quanto influisce questa risoluzione sulla memoria collettiva, soprattutto considerato che l’Unione Sovietica ha sacrificato 27 milioni dei suoi sull’altare della libertà?
La risoluzione rispecchia purtroppo quello che ormai, dopo 70 anni di bombardamento mediatico e politico, è diventato senso comune. Il totalitarismo “liberale” rimuove i crimini del capitalismo trasformando gli oppressi in oppressori. Questa operazione di revisionismo storico ha potuto sfondare nella società grazie a tecniche di guerra psicologica iniziate nel periodo della guerra fredda (di cui si trovano tracce anche precedenti), ma hanno potuto imporsi indisturbate grazie al crollo dello stesso movimento comunista occidentale. Una persona dotata di media istruzione non dispone oggi né di una conoscenza sufficiente della storia né del tempo e della volontà di andare a smentire questa vulgata. Semplicemente ha altri problemi e non concependo la politica come qualcosa di utile per sé, tanto meno è interessata a capire una questione che gli sembra un relitto ormai ininfluente del passato. Manca totalmente il nesso tra una tale operazione revisionista e i difetti strutturali dell’attuale società capitalistica, risolvibili solo innestando elementi di socialismo. La situazione è grave perché nel senso comune il comunismo è ricondotto ad un’utopia fallimentare che ha fatto milioni di morti. L’attuale regime fondato sulla decadenza della nostra civiltà rende quasi impossibile diffondere non dico la smentita di questi luoghi comuni (cosa che sussiste già nella produzione storiografica più recente), quanto la divulgazione di tale smentita. Se non si riesce a spezzare questo circolo non sarà mai possibile riproporre con successo una proposta politica fondata su un’ottica comunista, ma neppure anticapitalista e socialista.
– Noam Chomsky disse una volta che Monti non può in nessun modo rappresentare la democrazia, in quanto in quella posizione lo misero i burocrati di Bruxelles e non gli elettori. I membri stato dell’UE quanto possono mantenere la propria sovranità di fronte alla globalizzazione di oggi?
Monti è un tecnocrate al servizio dell’oligarchia finanziaria, e come lui molti altri politici che si spacciano per essere “moderati”, “liberali” o “democratici”. La verità è che tali partiti sono borghesi fino al midollo. Se andiamo a vedere le proprietà di un Gentiloni ci rendiamo subito conto che siamo di fronte a personaggi che non sono solo ricchi, ma veri e propri rentier che fanno la bella vita grazie al sistema finanziario internazionale. È perfettamente normale che facciano i loro interessi e cerchino di farli coincidere quelli dello Stato. La sovranità nazionale senza la sovranità popolare si traduce nel fare gli interessi della borghesia italiana, che gestisce direttamente o indirettamente la vita politica italiana. Una situazione similare si riscontra negli altri paesi europei. Le anomali politiche, tra cui coerenti socialdemocratici critici delle strutture attuali vengono ricondotte all’obbedienza con la forza economica (si pensi al primo Tsipras) o con la degradazione politica (mi viene in mente l’ultimo Corbyn, accusato ingiustamente di antisemitismo). La gran parte delle forze politiche dell’arco parlamentare europeo non pongono però il binomio sovranità nazionale + popolare. Le destre si fermano alla sovranità nazionale, spesso strumentalmente e senza effettiva volontà politica di danneggiare l’élite finanziaria in cui sono presenti anche pezzi di borghesia locale. Quel che intendono fare un Salvini o una Le Pen è piuttosto di ricostruire società gerarchiche e piramidali fondate su un ordine in cui la sovranità non sia solo espressione dell’alta borghesia, ma anche di pezzi della medio-piccola borghesia. Al popolino si offre il contentino illusorio di maggiore sicurezza e controllo sociale, oltre ad un ritorno illusorio ad un piccolo mondo antico che in tempi di globalizzazione può significare solo indipendenza nazionale nel ripristino di una società classista, reazionaria e xenofoba. Qui non si tratta solo di capire se i singoli Stati appartenenti all’UE abbiano ancora piena sovranità politica (e comunque no, non ce l’hanno, mi pare evidente), quanto piuttosto di mostrare chi trae vantaggio dall’adesione all’ordine imperialista occidentale che si struttura, per quanto ci riguarda, nelle strutture dell’UE e della NATO. Mi sembra che le condizioni di vita della maggior parte della popolazione, ed in particolar modo della classe lavoratrice, siano complessivamente peggiorate. Che ci sia un impoverimento relativo ed in molti casi assoluto, correlati ad una crescita esponenziale delle diseguaglianze, ce lo dicono peraltro i dati ISTAT e OXFAM che si susseguono di anno in anno. Se ci chiediamo perché a tali dati e collegamenti oggettivi non corrisponda una coscienza politica non posso far altro che ricondurre ai discorsi fatti sopra sulla capacità egemonica del regime nelle sue varie facce borghesi.
Chiudo il discorso ricordando che la globalizzazione attuale, sempre più egemonizzata dalla Cina e da un circuito alternativo a quello occidentale in crescita, offrirebbe la possibilità ad un popolo realmente intenzionato a recuperare sovranità per sé in una soluzione progressista e più avanzata socialmente, culturalmente e umanamente.
– E infine, cosa dovrebbe significare l’uscita del Regno Unito dall’UE per la sua classe operaia in senso marxista della teoria della politica economica, considerato che i Laburisti di Corbyn non si sono espressi in merito?
La classe lavoratrice britannica e la sua avanguardia politica possono ora concentrare l’attenzione quasi completamente sulla lotta interna e sulle contraddizioni squisitamente di classe che creano squilibri anche in una delle metropoli dell’imperialismo mondiale. La Gran Bretagna vive ancora di rendita finanziaria grazie ai privilegi ottenuti ai tempi dell’impero globale e grazie al ruolo di partner privilegiato di Washington. È verosimile che la soluzione dei conservatori sarà di rafforzare tale legame in contrapposizione al blocco emergente di Russia e Cina, ponendosi in rapporto di partnership privilegiata con l’UE. Ciò vuol dire che i ceti politici borghesi britannici cercheranno in tutti i modi di impedire il declino dell’impero statunitense, di cui sono i primi alleati e da cui traggono ampi vantaggi su tutti i continenti grazie alle proprie multinazionali e alla loro nutrita presenza nei trust occidentali. I profitti così ottenuti, con la speculazione finanziaria e la prosecuzione del saccheggio del “Terzo mondo”, possono essere redistribuiti in minima parte tra la classe lavoratrice britannica, accentuando il carattere social-imperialistico di un regime reazionario di massa. Questa d’altronde non è una caratteristica solo della Gran Bretagna ma è una ricetta simile a quella propugnata dalle “nuove” destre populiste: diritti e welfare sì, ma per pochi, cioè solo “i nostri”. Nel contesto della democrazia borghese a suffragio universale il social-imperialismo è una componente strettamente connessa e garantita dalle sovrastrutture egemoniche del totalitarismo “liberale”. La violenza c’è ma non si vede, e se per caso spunta saltuariamente fuori la si ignora o la si censura. Ai progressisti scegliere se ignorarla e battere su un accento sociale minore (Blair) o maggiore (Corbyn) di un sistema perverso, oppure provare a rompere il meccanismo imperialistico alla radice, cosa fattibile solo con una profonda rivoluzione. Non mi sembra che ciò sia all’ordine del giorno in un paese che discute ancora sui marchi della famiglia reale e in cui i laburisti si fermano a vaghi richiami simbolici e riforme che non mettono in discussione la struttura economica stessa. L’augurio è quindi che anche in Gran Bretagna, dove il marxismo non ha mai davvero sfondato politicamente, la classe lavoratrice inizi a ragionare su piani più avanzati.
1M. L. Andriola, La Nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Paginauno, Vedano al Lambro, settembre 2019 [1° ediz. 2014]. Il testo permette di cogliere il collegamento tra i successi attuali delle destre “populiste” (Le Pen, Salvini, ecc.) e un affinamento della teoria in senso egemonico delle destre neofasciste. Le origini di questa progettualità metapolitica vanno cercate nel variegato lavoro culturale svolto dal think tank francese del Grece a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. L’ottica è quella di un gramscismo di destra, che dopo un lungo percorso di produzione teorica ha trovato negli ultimi decenni un collegamento via via crescente con i ceti politici delle destre più reazionarie. Si potrebbe leggere il fenomeno come una “rivoluzione neo-conservatrice” che si poggia su un impianto nazionalista e social-imperialista, fondato sul differenzialismo culturale, piuttosto che etnico. La difesa dell’identità nazionale è una difesa dall’“altro”, che non viene concepito da un arricchimento quanto piuttosto un rischio di degenerazione morale. Un atteggiamento xenofobo è l’assioma implicito di questi ragionamenti aristocratici. La “nuova destra” è un modo intelligente per nascondere il razzismo che permea la mentalità di questi signori, che farebbero qualsiasi cosa in loro potere, perfino ripudiare l’imperialismo “liberal” statunitense, pur di non vivere in una società multietnica e orientata culturalmente in senso democratico, liberale ed egualitaristico. Inutile aggiungere che in loro non si trova alcuna proposta di controllo popolare dei mezzi di produzione. L’apertura che fanno alla sinistra riguarda solo l’ottica dei diritti civili (ed è molto parziale) e di un rinnovato welfare State in un’ottica esclusivista. Qualcuno parla perfino di ripristinare un “impero”… Non sono tesi folli, sono progetti politici degni prosecutori della teoria giustificazionista dell’imperialismo, che ama mascherare dietro i motti della “libertà” la propria inusitata violenza. Leggere questo libro significa insomma capire quali sono i potenziali Hitler del XXI secolo e cosa dicono di voler fare dopo aver preso il potere.
STORIA DEL COMUNISMO
Storia del Comunismo. Le lotte di classe nell’era del socialismo (1917-2017).
Un secolo di storia contemporanea riletto in 4 tomi con la metodologia del materialismo storico. A cura di Alessandro Pascale, storico e insegnante.
STORIA DEL SOCIALISMO E DELLA LOTTA DI CLASSE
A partire dai materiali di “In Difesa del Socialismo Reale”, nasce una nuova collana, pubblicata in 10 volumi da La Città del Sole.
Clicca qui per maggiori informazioni
Partecipa al finanziamento del progetto facendo un’offerta.
IL TOTALITARISMO “LIBERALE”. LE TECNICHE IMPERIALISTE PER L'EGEMONIA CULTURALE
Il primo volume della collana “Storia del Socialismo e della Lotta di Classe”. Uscito nelle librerie nel gennaio 2019 al costo di 25 euro; Per info sull’opera e sull’acquisto clicca qui.