GLI INSEGNAMENTI DI STALIN PER LA LOTTA ATTUALE DEI COMUNISTI

Set 30, 2024 | articolo

Di Alessandro Pascale (Resistenza Popolare)

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Importante e riuscita l’iniziativa svolta a Milano dalla sezione locale di Resistenza Popolare, assieme al Partito dei Carc sugli insegnamenti di Stalin per la lotta dei comunisti di oggi. Alla conferenza internazionale hanno partecipato, direttamente o inviando contributi, il Partito Comunista di Cuba, il Fronte Nazionale Democratico delle Filippine, il Forum Internazionale Coreano, il Partito Socialista Unito del Venezuela, il Freedom Road Socialist Organization, il Partito Comunista degli Stati Uniti, il Nuovo Partito Comunista del Canada e il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia.

L’incontro ha costituito un importante momento della battaglia culturale contro il revisionismo storico borghese, ricordando il ruolo rivoluzionario, il pensiero e prassi di quello che Lenin chiamava “il magnifico georgiano”, e più in generale difendendo e valorizzando l’esperienza storica dell’Unione Sovietica e l’importanza degli insegnamenti dei maestri del socialismo (Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao) per la prassi quotidiana. In molteplici relazioni ci si è soffermati sull’importanza della questione nazionale e del tema patriottico come percorsi utili di lotta contro l’imperialismo.

Unanime è stata la denuncia dell’imperialismo occidentale a guida statunitense, responsabile delle principali guerre oggi in atto in Ucraina e Palestina e delle destabilizzazioni che imperversano in forme diverse in ogni continente. Diffuse sono le tesi dell’azione oggettivamente antimperialista costituita oggi dai BRICS e dai loro alleati oggi nel mondo, e della necessità per le organizzazioni comuniste di lavorare alla costruzione di fronti antimperialisti e antifascisti per lavorare alla costruzione di “nuove democrazie” e “rivoluzioni socialiste”. Di seguito la relazione di Alessandro Pascale, membro della Direzione Nazionale.

È possibile vedere il video dell’intera iniziativa da https://www.facebook.com/FestanazionaledellaRiscossaPopolare/videos/408930905295291. L’intervento avviene dopo 2 ore, 48 minuti e 30 secondi.

  1. Prima di analizzare i punti proposti all’ordine del giorno, occorre fare una necessaria premessa.

    Il primo insegnamento che occorre trarre dall’URSS di Stalin è che i comunisti devono scavare in profondità per conoscere pienamente questa esperienza. Occorre prendere atto che l’affermazione del socialismo in un Paese si accompagna nei Paesi capitalisti ad un processo di sistematica denigrazione e demonizzazione di tale modello e dei suoi protagonisti, fino a giungere alla costruzione di un vero e proprio totalitarismo “liberale” che, grazie al controllo delle leve economiche, politiche e culturali (comprendenti l’educazione scolastica e accademica) riesce a mantenere l’egemonia sulla maggior parte del proprio proletariato.

    Nei Paesi capitalisti la battaglia culturale contro il revisionismo storico e la sistematica disinformazione sulle questioni internazionali è quindi il primo passo, necessario ma non sufficiente, per ridare credibilità alla questione comunista.

    Cercare di salvare un’opzione comunista o anche solo socialista accettando la condanna dell’URSS e del suo più prestigioso e duraturo leader, Stalin, significa non solo cedere alla falsa narrazione del nemico di classe, ma anche ricadere in un socialismo utopistico astratto che tenderà al rigetto di tutte le conquiste ideologiche del marxismo-leninismo, indebolendo in maniera decisiva la prassi militante e l’azione del movimento rivoluzionario.

    Rigettiamo quindi la categoria trocko-borghese dello “stalinismo” affermando che l’antistalinismo è la porta dell’anticomunismo e del disarmo ideologico e politico del proletariato in lotta per un mondo migliore.

    Tutto ciò è dimostrato non solo dai fatti conseguenti alla caduta dell’URSS, ma anche dalla più seria storiografia recente, che ha ampiamente confutato la “leggenda nera” di uno Stalin autocrate e dittatore sanguinario che avrebbe fatto degenerare l’URSS assassinando milioni di comunisti.

    I problemi del movimento comunista internazionale sono iniziati proprio a partire dal XX congresso del PCUS e dalle losche manovre di Chruscev, che facendo propria la propaganda del nemico hanno determinato contraccolpi decisivi di lungo termine in gran parte dei Paesi socialisti e nel cosiddetto “marxismo occidentale”.

  1. Sia per quel che riguarda i popoli che sono riusciti a liberarsi dal giogo capitalistico, sia per quelli ancora in lotta contro le relative borghesie, vale l’assunto fondamentale che, indifferentemente dal modello organizzativo seguito, conseguente alle particolarità del proprio contesto locale, risulta indispensabile una stringente formazione storica, filosofica e più genericamente politica dei propri militanti.

    Una formazione che deve ripartire dal marxismo-leninismo ma senza fermarsi ad esso, riscoprendo la metodologia non dogmatica e antipositivista del materialismo dialettico alla luce delle esperienze storiche globali dell’ultimo secolo.

    Nel contesto di lotta contro l’imperialismo la base da cui devono partire i comunisti è un partito di quadri, ben formati ideologicamente, che abbia l’ambizione e la capacità di aprirsi nei tempi più rapidi possibili ad un partito di massa, dedicandosi di pari passo alla costruzione di fronti antimperialisti più ampi.

    La difficoltà dell’operazione è evidente, e su questo scoglio è incappato il PCUS, colpito dalla forte crisi degli anni ’30, con le note lotte intestine che hanno portato una parte importante, ma minoritaria, del gruppo dirigente sovietico su posizioni oggettivamente controrivoluzionarie, e soprattutto negli ’80 con l’abbandono progressivo delle categorie marxiste avvenuto negli anni di Gorbacev.

    Anche in Italia il passaggio da un partito di quadri ad un partito di massa, avvenuto in ossequio ad una discutibile interpretazione della gramsciana “guerra di posizione”, si è accompagnato ad un graduale scadimento ideologico e politico, con l’introiezione di un’impostazione sostanzialmente socialdemocratica negli anni ’70 e infine liberale alla fine degli anni ’80.

    Occorre quindi attrezzarsi sistematicamente per una stringente formazione dei propri quadri, capaci di accrescere la coscienza politica di ogni singolo militante e iscritto di base, oltre che di portare la prospettiva e la visione dei comunisti primariamente in quei settori che hanno maturato una consapevolezza dell’oppressione imperialista, ma non sono ancora approdati al paradigma del socialismo scientifico.

  1. Negli intenti originari del gruppo dirigente bolscevico la rivoluzione d’Ottobre doveva essere la prima di una serie di rivoluzioni che avrebbero distrutto contemporaneamente il capitalismo in tutto il globo, consentendo in tempi rapidi la costruzione del comunismo.

    Per questo fin da subito l’ottica di costruzione di un sistema socialista si è legata inestricabilmente all’organizzazione di un’Internazionale comunista che aveva il compito di coordinare le forze rivoluzionarie di tutto il mondo.

    Se in Occidente, ossia nel cuore delle potenze imperialiste, ciò significava lavorare per la rivoluzione socialista, nel resto del mondo, ridotto ad una condizione coloniale, ciò si è tradotto fin dal II Congresso del Comintern (1920) nel lavorare anzitutto per la sconfitta dell’imperialismo, dando luogo alla conquista della sovranità nazionale e popolare.

    Occorre quindi distinguere rivoluzione socialista e rivoluzione antimperialista, nonostante la prima, correttamente intesa e applicata, includa automaticamente anche la seconda.

    L’antimperialismo di per sé non conduce automaticamente al socialismo, ma può portare un popolo a riconquistare la sovranità offrendo un campo di possibilità e di libertà più ampio alle classi lavoratrici, nel contesto di una “nuova democrazia”.

    Un esito di questo tipo, se da un lato costituisce comunque un avanzamento oggettivo per il fatto di indebolire il nemico principale, sul lungo termine può rovesciarsi nei suoi risultati.

    Rigettando ogni determinismo, dobbiamo sottolineare che, lasciando il potere politico nelle mani delle élite locali, siano esse borghesi o di stampo feudale, le conquiste ottenute rimangano assai precarie e sempre reversibili.

    Dal secondo dopoguerra l’imperialismo si è compattato attorno all’egemonia statunitense in un blocco più coeso per affrontare la minaccia bolscevica.

    Un antimperialismo anticomunista si traduce in un Paese capitalista che nel suo sviluppo economico porta al rafforzamento di una borghesia locale, e quindi potenzialmente, ma non inevitabilmente, al sorgere di un nuovo Paese imperialista, al quale si aprono due possibilità: o la cooptazione delle élite locali del Paese, emancipatosi solo politicamente, ma non economicamente, il che lo riconduce ad una condizione neocoloniale di “alleato” e partner minore della reazione internazionale, e quindi ad una condizione di sovranità limitata e di abbandono di ogni lotta alla globalizzazione imperialista – si noti che questo è stato un esito molto diffuso nel secondo ‘900.

    Oppure il mantenimento della lotta contro il vecchio imperialismo egemone, pur senza avviare nuovi rapporti sociali di produzione e di vita – e questo è quanto è accaduto più o meno silenziosamente negli ultimi decenni in svariati Paesi del mondo, che si sono raccolti attorno ai BRICS.

    Al tempo di Stalin, e in generale per tutto il periodo di esistenza dell’URSS, l’internazionalismo proletario si è concretizzato non solo con il supporto diretto ai partiti comunisti di tutto il mondo, ma anche sostenendo le lotte nazionali oggettivamente antimperialiste, perfino quando queste erano guidate da “emiri afghani” e settori aristocratico-borghesi.

    Questo sostegno, e la conseguente costruzione nell’Europa degli anni ’30 di fronti popolari alleati della socialdemocrazia e dei liberali progressisti, è però sempre stato subordinato alla condizione primaria di garantire la sopravvivenza e il rafforzamento della principale “base rossa” dell’epoca: quell’URSS perno del movimento comunista e antimperialista internazionale.

    L’antimperialismo privo di una leadership comunista, sia in ambito internazionale e locale, rischia insomma di degenerare facilmente nella geopolitica e nella prassi borghese.

    L’antimperialismo sorretto da una leadership comunista conduce invece ad un indebolimento effettivo e di lungo termine dell’imperialismo, favorendo l’accumulazione di forze non sempre soggettivamente, ma oggettivamente rivoluzionarie rispetto all’ordine vigente.

    Così era ai tempi di Stalin, che ha saputo elaborare tattiche differenti a seconda del contesto, in ossequio ai principi leninisti dell’analisi concreta della situazione concreta e di quell’arte politica del compromesso legittimata teoricamente e praticamente da Lenin con grande maestria. Il risultato di questa strategia trentennale è stato che alla sua morte i rapporti di forza tra borghesia e proletariato si erano notevolmente modificati con una crescita di peso, per quanto ancora insufficiente, di quest’ultimo, che ha conquistato il potere politico e avviato percorsi socialisti nell’Europa orientale, in Cina e in Corea, oltre a rafforzarsi in molte altre parti del mondo, compresa l’Italia, dove pure risultava ancora all’opposizione.

    Oggi la lotta per il multipolarismo è una lotta oggettivamente antimperialista ed è sotto gli occhi di tutti come il fronte della Resistenza, che comprende anche Paesi capitalisti che difendono la propria sovranità nazionale, si sorregga grazie all’azione e al peso politico ed economico della Repubblica Popolare Cinese, ossia un Paese guidato da un Partito Comunista che, nonostante non abbia ancora costruito un modello pienamente socialista, lavora in quella direzione, ragionando su un’ottica di lungo periodo e partendo da una base materiale di gran lunga più sviluppata rispetto all’URSS – bastino i dati che la Cina produce ormai circa il 60% delle merci industriali e manifatturiere di tutto il globo, e ha superato da anni gli USA nel primato del PIL.

    Con la sua politica di cooperazione economica pacifica e paritaria, la Cina consente a tutti i Paesi neocoloniali di sottrarsi alle imposizioni dell’imperialismo, che avvengono sotto forma di diktat delle multinazionali o di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Quella della Cina è di fatto una versione moderna e intelligente dell’internazionalismo proletario che fa molto più male alla borghesia occidentale, non offrendole alcuna giustificazione per eventuali interventi armati contro quello che nel ‘900 veniva definito il “complotto comunista”.

    Un compito comune ai comunisti di tutto il mondo è quindi supportare questo asse della Resistenza antimperialista, difendendo anzitutto la Cina e i Paesi socialisti sopravvissuti al periodo della “seconda restaurazione” dagli attacchi e dalle manovre occidentali, ma anche sostenendo attivamente i suoi oggettivi alleati oggi in prima fila nella terza guerra mondiale in atto: la Russia, il popolo palestinese e le sue variegate organizzazioni, il governo venezuelano, e ogni altro Paese che si ponga su basi oggettivamente contrarie all’egemonia statunitense e occidentale e collabori attivamente con i BRICS.

  1. Poste di fronte alla minaccia di un assalto diretto che portasse alla propria scomparsa come classe organizzata, le borghesie hanno reagito contro il regime sovietico usando la guerra e la repressione, legittimando e sostenendo attivamente invasioni militari, destabilizzazioni interne e infine il passaggio da regimi liberali a regimi fascisti.

    Quest’ultima manovra ha però aperto il campo a contraddizioni in seno alle stesse classi dominanti, che fin dal XIX secolo hanno imparato a seguire politiche social-imperialiste con cui cooptare nei propri blocchi sociali i cosiddetti “ceti medi”, ossia quell’aristocrazia operaia che costituisce il settore più benestante e mediamente più istruito del proletariato. Questo settore, spesso tendente all’idealismo, non accetta facilmente la perdita di libertà e diritti civili. Questa contraddizione si ripropone costantemente in presenza di modelli socialisti capaci di sfidare l’egemonia capitalistica.

    La superiorità del modello socialista, variamente intesa, si evince dal fatto che sia nei modelli fondati sulla socializzazione totale dell’economia (caso sovietico), sia in quelli riconducibili al cosiddetto “socialismo di mercato” (caso cinese dopo la svolta del 1978), il connubio tra pianificazione e volontà dell’avanguardia politica del proletariato, ha permesso di sviluppare maggiormente rispetto all’Occidente capitalistico le forze produttive, migliorando incisivamente il benessere delle masse popolari con un modello sostenibile e non predatorio nei confronti di altri Paesi. La grande differenza tra qualsiasi sistema capitalista e qualsiasi sistema socialista sta proprio in questa relativa sostenibilità e autosufficienza interna dei Paesi socialisti, che si realizza pienamente sviluppando la cooperazione internazionale pacifica.

    La crescente affermazione di sistemi socialisti sottrae terreno e possibilità di profitto alla borghesia, che per svariate ragioni è portata a sostenere politiche che conducono all’imperialismo, e quindi all’affermazione dei monopoli, al primato della finanza speculativa, alla guerra e all’asservimento di altri popoli, oltre che all’impoverimento relativo del proprio proletariato nazionale, la cui condizione negli anelli deboli della catena imperialista può peggiorare anche in termini assoluti (caso italiano degli ultimi 40 anni), così come la condizione delle classi borghesi medio-piccole.

    Soprattutto quest’ultima conseguenza apre la possibilità di costruire alleanze sociali più larghe con la proposta di fondare una “nuova democrazia”.

    Questo passaggio è possibile però solo costruendo programmi minimi che rischiano di alienare le simpatie e il consenso della propria base militante e del proletariato più radicale.

    Il problema si può risolvere solo mantenendo l’unità organizzativa e politica della classe lavoratrice e lavorando sulla formazione e l’informazione della stessa.

  2. Stalin e il gruppo dirigente bolscevico hanno saputo guidare l’URSS alla vittoria nella Seconda guerra mondiale anche giocando sull’altra contraddizione insita al sistema capitalistico: la borghesia sa bene di non poter governare con il solo bastone, e ha fatto propria da secoli la bandiera ideologica del liberalismo, ponendo in primo luogo il tema dei diritti civili, ed in secondo luogo accettando forzatamente una certa dose di diritti sociali sotto forma di un welfare state più o meno sviluppato, con l’obiettivo di frenare sul nascere una diffusione di massa di rivendicazioni troppo radicali e contestatrici dell’ordine capitalistico.

    Quando però l’imperialismo entra in crisi e si inceppa il meccanismo del ciclo riproduttivo del capitale, la borghesia risponde alla caduta dei propri saggi di profitto tagliando le quote di salario diretto e “sociale” di cui dispone il proletariato, riducendo così inevitabilmente parte delle “libertà” di quest’ultimo.

    La crisi conduce presto o tardi all’avvento di forme autoritarie di controllo sociale che trovano come proprio apice il passaggio da un totalitarismo “morbido” quale è quello “liberale” ad uno apertamente “dispotico” e illiberale quale è il fascismo, che in termini generali si configura come la dittatura violenta del grande capitale che si caratterizza per la soppressione dei diritti civili e per il tentativo di distruggere dalle fondamenta ogni forma di opposizione politica, sia essa organizzata o meramente teorica.

    Tutte le forme storiche di fascismo si sono configurate in politica interna come repressive del movimento operaio e in politica estera come nemiche dell’URSS e del movimento comunista internazionale.

    Se però nel periodo della Seconda guerra mondiale un movimento comunista di un paese coloniale poteva trovarsi a dover scegliere tra la lotta antifascista e la lotta antimperialista (si pensi al caso dei comunisti che agivano nei territori coloniali degli imperialisti inglesi, diventati “alleati” nella lotta al nazifascismo dal 1941 al ‘45) la situazione è oggi meno equivoca. Forme di fascismo, più o meno variegato, si sono manifestate nell’ultimo secolo non solo in Europa, ma in gran parte del mondo sottomesso all’imperialismo occidentale, configurandosi sempre dal secondo dopoguerra come strettamente alleate e subalterne agli indirizzi statunitensi.

    Ai comunisti spetta oggi, soprattutto in Occidente, il compito di sfruttare i diffusi sentimenti antifascisti saldandoli fortemente alla lotta antimperialista, denunciando i regimi capitalistici attuali come forme moderne di totalitarismi capaci di evolvere rapidamente in sistemi sempre più repressivi e illiberali, di fronte ad un crescente movimento di lotta popolare.

    I comunisti devono agire nei conflitti che si aprono in questa fase di crisi dei sistemi borghesi, trovando un argomento ulteriore per ampliare il proprio blocco sociale. Solo dall’intreccio di queste e altre fondamentali lotte (in primis quelle dei lavoratori) i partiti comunisti possono crescere rapidamente di numero, acquisendo lo status di un partito di massa che a quel punto dovrà avere l’integrità di mantenere sempre e chiaro l’obiettivo politico fondamentale: la conquista del potere politico e l’avvio di una fase rivoluzionaria per un nuovo ordine sociale e politico.

    Predeterminare l’esito di questa fase sarebbe assurdo e utopistico.

    Certo è che l’obiettivo finale deve essere l’approdo ad una società socialista in cui scompaia la borghesia come classe organizzata, ma nulla vieta che ciò arrivi dopo un lungo arco di un periodo di “nuova democrazia”, ossia di una forma di democrazia popolare, in cui, sul modello cinese, viga un controllo politico e macro-economico che lasci spazi d’azione più o meno ampi ad una medio-piccola borghesia partecipe di una lotta antifascista e antimperialista, capace nel caso italiano di identificare come un punto inderogabile della lotta consista nell’uscita del nostro Paese dalle strutture imperialiste della NATO e dell’Unione Europea. Una volta assolto questo compito inderogabile, saranno le condizioni concrete ad indicare le tappe e i tempi che condurranno all’instaurazione del socialismo.

STALIN’S TEACHINGS FOR THE COMMUNISTS’ CURRENT STRUGGLE

By Alessandro Pascale (Resistenza Popolare, Italy)

  1. Before analyzing the proposed agenda of this meeting, a necessary premise must be made. The first lesson that must be drawn from Stalin’s USSR is that communists must dig deep to know this experience fully. It is necessary to take note that the establishment of socialism in a country is accompanied in other capitalist countries by a process of systematic denigration and demonization of that model and its protagonists, culminating in the construction of a veritable “liberal” totalitarianism which, thanks to its control of economical, political and cultural levers (including school and academic education), succeeds in maintaining hegemony over the majority of its proletariat. In capitalist countries, the cultural battle against historical revisionism and a systematic misinformation on international matters is thus the first step, necessary but not sufficient, to restore credibility to the communist question.

    Trying to save a communist or even a socialist option by accepting the condemnation of the USSR and its most prestigious and enduring leader, Stalin, means not only giving in to the false narrative of the class enemy, but also falling back into an abstract utopian socialism that will tend to the rejection of all the ideological achievements of Marxism-Leninism, decisively weakening the militant praxis and action of the revolutionary movement.

    We therefore reject the bourgeois-Trotskyist category of “Stalinism” by stating that anti-Stalinism is the gateway to anti-communism and to the ideological and political disarmament of the proletariat struggling for a better world. All of this is proved not only by the facts which followed the fall of the USSR, but also by the most serious recent historiography, which has largely refuted the “black legend” of an autocratic Stalin and bloodthirsty dictator who would had degenerate the USSR by murdering millions of communists.

    The problems of the international communist movement began precisely from the 20th Congress of the Soviet Union Communist Party and the shady maneuvers of Chrushev, who, by making the enemy’s propaganda his own, led to decisive long-term setbacks in most socialist countries and in the so-called “Western Marxism.”

  1. Regarding both the peoples who have succeeded in freeing themselves from the capitalist yoke and those still struggling against the respective bourgeoisies, the fundamental assumption is that, regardless of the followed organizational model consequent to the particularities of local context, a stringent historical, philosophical and more generically political formation of its militants is fundamental. A formation that must start from Marxism-Leninism but without stopping at it, rediscovering the non-dogmatic and anti-positivist methodology of dialectical materialism in the light of the global historical experiences of the last century. In the context of the struggle against imperialism, the base from which communists must start is a party of well-trained ideologically cadres, which has the ambition and ability to open up as quickly as possible to a mass party, devoting themselves at the same time to building broader anti-imperialist fronts.

    The difficulty of the operation is obvious, and on this stumbling block the Soviet Union Communist Party stumbled, hit by the severe crisis of the 1930s, with the well-known infighting that brought an important although minority part of the Soviet leadership group to objectively counterrevolutionary positions, and especially in the 1980s with the gradual abandonment of Marxist categories that took place in the Gorbacev years.

    In Italy, too, the transition from a cadre party to a mass party, which took place in deference of a questionable interpretation of Gramsci’s “war of positions,” was accompanied by a gradual ideological and political decline, with the introduction of an essentially social-democratic approach in the 1970s and finally a liberal one in the late 1980s. It is therefore necessary to systematically equip itself for a stringent training of its cadres, capable of developing the political consciousness of each individual militant and grassroots member, as well as bringing the perspective and vision of communists primarily to those sectors that have matured an awareness of imperialist oppression but have not yet arrived at the paradigm of scientific socialism.

  1. In the original intentions of the Bolshevik leadership group, the October Revolution should have been the first of a series of revolutions that would simultaneously destroy capitalism across the globe, quickly enabling the construction of communism. That is why from the outset the view of building a socialist system was inextricably linked to the organization of a Communist International, which had the task of coordinating the revolutionary forces throughout the world. If in the West, i.e., in the heartland of the imperialist powers, this meant working for socialist revolution, in the rest of the world, reduced to a colonial condition, this has translated since the Second Comintern Congress (1920) into working first and foremost for the defeat of imperialism, giving rise to the conquest of national and popular sovereignty. A distinction must therefore be made between socialist revolution and anti-imperialist revolution, although the former, correctly understood and applied, automatically includes the latter. Anti-imperialism per se does not automatically lead to socialism, but it can lead a people to regain sovereignty by offering a wider field of possibilities and freedoms to the working classes, in the context of a “new democracy.” Such an outcome, while still constituting an objective advance in that it weakens the main enemy, may in the long run reverse itself in its results. Rejecting all determinism, we must point out that by leaving political power in the hands of local elites, whether bourgeois or feudal in nature, the achievements made remain very precarious and always reversible.

    Since World War II, imperialism has compacted around U.S. hegemony into a more cohesive bloc to face the Bolshevik threat. An anti-communist anti-imperialism results in a capitalist country that in its economic development leads to the strengthening of a local bourgeoisie, and thus potentially, but not inevitably, to the rise of a new imperialist country, to which two possibilities open: either the co-option of the local elites of the country emancipated only politically, but not economically, which leads it back to a neo-colonial condition of “ally” and minor partner of international reaction, and thus to a condition of limited sovereignty and abandonment of any struggle against imperialist globalization – note that this was a widespread outcome in the latter 20th century. Or the maintenance of the struggle against the old hegemonic imperialism, while not initiating new social relations of production and life – and this is what has happened more or less silently in recent decades in a variety of countries around the world, which have gathered around the BRICS.

    In Stalin’s time, and generally throughout the existence of the USSR, proletarian internationalism was concretized not only by direct support for communist parties around the world, but also by supporting objectively anti-imperialist national struggles, even when these were supported by “Afghan emirs” and aristocratic-bourgeois sectors. This support, and the consequent building in 1930s Europe of popular fronts allied with social democracy and progressive liberals, was, however, always subordinated to the primary condition of ensuring the survival and strengthening of the main “red base” of the time: that USSR pivot of the international communist and anti-imperialist movement.

    In short, anti-imperialism devoid of a communist leadership, both internationally and locally, easily risks degenerating into bourgeois geopolitics and praxis. Instead, anti-imperialism supported by a communist leadership leads to an effective and long-term weakening of imperialism, fostering the accumulation of forces that are not always subjectively, but objectively revolutionary with respect to the existing order. This happened in the time of Stalin, who was able to devise different tactics depending on the context, in deference to the Leninist principles of concrete situation analysis and to the political art of compromise, legitimized theoretically and practically by Lenin with great skill.

    The result of this thirty-year strategy was that upon his death the balance of power between the bourgeoisie and the proletariat had significantly changed with a growth in weight, although still insufficient, of the latter, which gained political power and started socialist paths in Eastern Europe, China and Korea, as well as gaining strength in many other parts of the world, including Italy, where it was still in opposition.

    Today the struggle for multipolarism is an objectively anti-imperialist struggle and it is clear to all how the Resistance Front, which also includes capitalist countries that defend their national sovereignty, is supported thanks to the action and political and economic weight of the People’s Republic of China, that is, a country led by a Communist Party which, despite not having yet built a fully socialist model, is working in that direction, thinking from a long-term perspective and starting from a material base that is far more developed than the USSR – Suffice it to say that China now produces about 60% of the globe’s industrial and manufacturing goods, and has for years surpassed the U.S. in GDP supremacy.

    With its policy of peaceful and equal economic cooperation, China allows all neo-colonial countries to escape the impositions of imperialism, which come in the form of diktats from multinational corporations or bodies such as the International Monetary Fund and the World Bank. China’s is in fact a modern and intelligent version of proletarian internationalism that does much more harm to the Western bourgeoisie by offering it no justification to justify any armed interventions against what in the 1900s was called the “communist conspiracy”.

    A common task for communists around the world is therefore to support this axis of anti-imperialist Resistance, first of all defending China and the socialist countries that survived the period of the “second restoration” from Western attacks and maneuvers, but also actively supporting its objective allies that today are in front row in the ongoing third world war: Russia, the Palestinian people and their various organizations, the Venezuelan government, and any other country that places itself on a basis objectively contrary to US and Western hegemony and actively collaborates with the BRICS.

  1. Faced with the threat of a direct assault leading to their own disappearance as an organized class, the bourgeoisies have reacted against the Soviet regime by using war and repression, actively legitimizing and supporting military invasions, internal destabilizations, and finally the transition from liberal to fascist regimes. The latter maneuver, however, has opened the field to contradictions within the ruling classes themselves, which since the 19th century have learned to follow social-imperialist policies by which to co-opt into their social blocs the so-called “middle classes,” i.e., that working-class aristocracy that constitutes the more affluent and middle-educated sector of the proletariat.

    This sector, often tending toward idealism, does not readily accept the loss of freedoms and civil rights. This contradiction constantly recurs in the presence of socialist models capable of challenging capitalist hegemony. The superiority of the socialist model, variously understood, is evident from the fact that both in models based on the total socialization of the economy (Soviet case) and in those attributable to so-called “market socialism” (Chinese case after the 1978 breakthrough), the combination of planning and the will of the political vanguard of the proletariat, has enabled the productive forces to develop more than in the capitalist West, incisively improving the welfare of the popular masses with a model that is sustainable and non-predatory towards other countries.

    The great difference between any capitalist system and any socialist system lies precisely in this relative sustainability and internal self-sufficiency of socialist countries, which is fully realized by developing peaceful international cooperation. The growing affirmation of socialist systems takes land and profit possibilities away from the bourgeoisie, which for a variety of reasons is led to support policies that lead to imperialism, and thus to the establishment of monopolies, the primacy of speculative finance, war and the enslavement of other peoples as well as to the relative impoverishment of its own national proletariat, whose condition in the weak links of the imperialist chain may also worsen in absolute terms (the Italian case of the last 40 years), as well as the condition of the small and middle bourgeois classes.

    Especially the latter consequence opens up the possibility of building broader social alliances with the proposal to build a “new democracy.” However, this shift is possible only by building minimal programs that risk alienating the sympathies and consensus of one’s militant base and the more radical proletariat. The problem can be solved only by maintaining the organizational and political unity of the working class and by working on educating and informing it.

  1. Stalin and the Bolshevik leadership group were able to lead the USSR to victory in World War II also by playing on the other contradiction inherent in the capitalist system: the bourgeoisie knows well that it cannot rule with a stick alone, and has for centuries made the ideological banner of liberalism its own, firstly placing the issue of civil rights, and secondly forcibly accepting a certain amount of social rights in the form of a more or less developed welfare state, with the aim of nipping in the bud a mass spread of overly radical and contesting claims to the capitalist order.

    However, when imperialism goes into crisis and the mechanism of capital’s reproductive cycle is jammed, the bourgeoisie responds to the fall in its profit rates by cutting the proletariat’s share of direct and “social” wages, thus inevitably reducing some of the latter’s “freedoms.”

    The crisis sooner or later leads to the advent of authoritarian forms of social control, which culminate in the transition from a “soft” totalitarianism such as the “liberal” one to an openly “despotic” and illiberal one such as fascism, which in general terms is configured as the violent dictatorship of big capital that is characterized by the suppression of civil rights and the attempt to destroy from the foundation all forms of political opposition, whether organized or merely theoretical.

    All historical forms of fascism have been configured in domestic politics as repressive of the labor movement and in foreign politics as enemies to the USSR and the international communist movement. If, however, in the period of World War II a communist movement in a colonial country could find itself having to choose between the anti-fascist struggle and the anti-imperialist struggle (think of the case of communists acting in the colonial territories of the British imperialists, “allies” in the fight against Nazi-fascism from 1941 to ’45) the situation is less equivocal today. Forms of fascism, more or less varied, have manifested themselves in the last century not only in Europe, but in much of the world subjected to Western imperialism, always configuring themselves since World War II as closely allied and subordinate to U.S. directions.

    Communists today, especially in the West, have the task of exploiting the widespread anti-fascist sentiments by strongly welding them to the anti-imperialist struggle, denouncing the current capitalist regimes as modern forms of totalitarianism capable of rapidly evolving into increasingly repressive and illiberal systems, in the face of a growing popular struggle movement. Communists must act in the conflicts that arise in this phase of crisis of bourgeois systems, finding a further argument to expand their social block.

    Only from the interweaving of these and other fundamental struggles (primarily those of the workers) can communist parties rapidly grow in numbers, acquiring the status of a mass party that at that point will have to have the integrity to maintain always and clearly the fundamental political goal: the seizure of political power and the initiation of a revolutionary phase for a new social and political order. Predetermining the outcome the latter would be absurd and utopian.

    What is certain is that the final goal must be the achievement of a socialist society in which the bourgeoisie as an organized class disappears; however nothing prevents this from coming after a long a period of “new democracy,” that is, a form of popular democracy, in which – on the Chinese model – political and macro-economic control prevails, leaving more or less room for action to a middle-petty bourgeoisie participating in an anti-fascist and anti-imperialist struggle; a middle-petty bourgeoisie capable – in the Italian case – of identifying our country’s exit from the imperialist structures of NATO and the European Union as the essential point of the struggle.

    Once this inescapable task has been accomplished, the concrete conditions will indicate the stages and times that will lead to the establishment of socialism.

STORIA DEL COMUNISMO

Storia del Comunismo. Le lotte di classe nell’era del socialismo (1917-2017).
Un secolo di storia contemporanea riletto in 4 tomi con la metodologia del materialismo storico. A cura di Alessandro Pascale, storico e insegnante.

STORIA DEL SOCIALISMO E DELLA LOTTA DI CLASSE

A partire dai materiali di “In Difesa del Socialismo Reale”, nasce una nuova collana, pubblicata in 10 volumi da La Città del Sole.

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IL TOTALITARISMO “LIBERALE”. LE TECNICHE IMPERIALISTE PER L'EGEMONIA CULTURALE

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