METALIBRO SU LOGICA DIALETTICA E L’ESSERE DEL NULLA
Di Giovanna Melia & Alessandro Pascale
Gennaio 2025
Pubblicato su Mondorosso.wordpress.com e Intellettualecollettivo.it.
Indice
Prefazione p. 3
I. I quattro “treni cosmici” e il fiume di Cratilo p. 9
II. Stalin e le quattro leggi generali della dialettica p. 12
III. Albedo 0.39 e la trasformazione universale p. 15
IV. Entropia e il principio A = A e non A p. 16
V. A=A e non A secondo Plekhanov p. 17
VI. A = A e non A tra Marx e Hegel p. 21
VII. Praxis, universalità e particolarità p. 23
VIII. Ideale, simboli e realtà p. 25
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Prefazione
Di Alessandro Pascale
Ho accolto con piacere la proposta di Giovanna Melia di collaborare a questo metalibro di riflessione e rafforzamento dell’opera Logica dialettica e l’essere del nulla recentemente pubblicata dai compagni Sidoli, Burgio e Leoni, per la primaria constatazione della natura profondamente politica, oltre che teoretica, dell’argomento.
Il tema potrebbe in effetti sembrare a molti compagni e militanti secondario in un contesto caratterizzato dalla guerra e dalle urgenze organizzative dettate dalla crisi del movimento comunista occidentale, ma in realtà occorre ribadire il nesso profondo che lega la crisi del marxismo occidentale proprio alla perdita dei fondamentali della teoria filosofica rivoluzionaria elaborata oltre 150 anni fa da Marx ed Engels, via via sviluppati da altri importanti maestri del socialismo. In tal senso ho ribadito più volte in altre sedi (rimanderei al recente Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari, L’AntiDiplomatico 2023) l’importanza basilare, anzitutto per i quadri dirigenti, ma non secondariamente anche per i militanti e i simpatizzanti, della necessità di recuperare una forma mentis alternativa rispetto alla rigida logica “metafisica” prevalente nel senso comune. Ribadire, come fa la logica formale, che A = A, e fermarsi a questo, appiattisce la realtà percepita ad una razionalità che appare inamovibile, statica, eterna, rendendo vano non solo lavorare per una realtà diversa, ma perfino riuscire a concepirla mentalmente, tale realtà diversa. La logica dialettica apre quindi il campo alla possibilità di pensare ad una realtà in divenire continuo, obbligando i singoli e le organizzazioni a lavorare continuamente all’aggiornamento della propria analisi e della propria proposta cercando di infilarsi nelle contraddizioni che caratterizzano costantemente, costitutivamente, l’intera realtà, compresa la società in cui viviamo. Contraddizioni in cui sono già presenti, seppur spesso appena accennati o invisibili, i germi della società futura che vorremmo costruire. Contraddizioni che non scompariranno mai del tutto, nemmeno nella società socialista e comunista, obbligandoci a uscire da visioni dogmatiche e definitive del percorso rivoluzionario e di una ipotetica “fine della storia” che non potrà mai caratterizzare né alcuna società capitalista, né comunista.
Dal punto di vista pratico si potrebbe ricordare come nello scenario internazionale attuale, la contraddizione in atto tra l’Occidente imperialista e l’asse della Resistenza guidato dai BRICS a egemonia cinese costituisce certamente la contraddizione principale, ma non possiamo nemmeno trascurare le contraddizioni secondarie presenti in seno allo stesso Occidente imperialista (ad esempio tra USA ed Europa, o tra le élite borghesi e le classi proletarie occidentali) e perfino all’interno degli stessi BRICS (ad esempio tra il modello della via cinese al socialismo e la repubblica teocratica islamica), che ci impongono di elaborare conclusioni politiche sempre aperte alla possibilità di revisione in presenza di significative svolte quantitative e qualitative, siano esse frutto di eventi improvvisi ed imprevedibili, siano esse conseguenze di movimenti strutturali di longue durée.
È però proprio da queste contraddizioni che la globalizzazione neoliberista a guida statunitense (A) nasconde già dentro di sé i semi e gli arbusti della globalizzazione socialista caratterizzata dall’egemonia cinese (“Non A”), ossia da un Paese guidato dal più grande Partito Comunista del mondo, assai consapevole delle contraddizioni insite nel difficile ma entusiasmante percorso che sta portando avanti da più di un secolo.
Non riuscire a cogliere il valore positivo di queste contraddizioni, fermandosi invece solo al loro carattere negativo, conduce all’appiattimento di un’analisi schematica “morta”, con la conseguente costruzione di proposte politiche inadeguate che rischiano di frenare o impedire in senso progressivo il superamento delle contraddizioni più deteriori che attualmente si traducono in un crescente impoverimento materiale e spirituale di milioni di esseri umani.
Fin qui alcune brevi considerazioni politiche. Ora varrà la pena aggiungere alcune parole sui rimandi che è possibile fare in ambito filosofico occidentale ad una visione dialettica che non casualmente ha quasi sempre caratterizzato gli autori più progressisti che l’hanno incarnata e fatta propria, sia pur con sfumature diverse. Si potrebbe partire dai “presocratici”: Anassimandro, l’allievo di Talete, non ha parlato esplicitamente di dialettica, ma ha introdotto il tema del passaggio dall’unità dell’arché alla molteplicità delle cose introducendo il tema dell’opposizione dei contrari, portato avanti anche nell’ambito del pensiero pitagorico ed eracliteo. Nella manualistica si tende spesso a identificare sia Pitagora che Eraclito come autori politicamente conservatori e “aristocratici”, trascurando gli “scandali” rivoluzionari a cui hanno dato luogo le comunità pitagoriche, che oltre ad affermare la messa in comunione dei beni nelle proprie comunità, garantivano una piena parità di diritti alle donne, agli schiavi e perfino agli animali, nella volontà generale di lavorare alla ricomposizione dell’armonia cosmica a seguito della scissione originaria della realtà in molteplici pezzi. Di Eraclito si fraintende spesso il concetto di polemos, tradotto con “guerra”, ma forse sarebbe meglio un più generico “conflitto”, di cui viene ribadita l’inevitabilità strutturale in una natura e in una società caratterizzati dal continuo divenire. Nella contraddizione tra “svegli” e “dormienti”, Eraclito sostiene giusto che governino gli “svegli”, ossia gli aristoi (i migliori), intesi non come i membri di diritto (per sangue) al ceto aristocratico, ma i filosofi, coloro capaci di usare il logos (ragione) per garantire il bene comune e governare le contraddizioni evitando gli eccessi con un’adeguata ed equilibrata misura.
Perfino Zenone di Elea, nonostante sia stato un illustre rappresentante di quella scuola eleatica che ha posto il tema dell’immutabilità dell’essere e l’assurdità del non essere, è stato indicato da Aristotele come il fondatore della dialettica per le sue tecniche confutatorie facenti perno sulla tecnica della contraddizione (chiamate oggi “dimostrazioni per assurdo”). È certo curioso che Zenone fosse di tendenza “democratica” e che abbia preferito mozzarsi da solo la lingua, quando catturato da un tiranno contro cui congiurava, preferendo morire piuttosto di tradire i propri compagni.
La dialettica è stata sviluppata straordinariamente dai cosiddetti “sofisti”, che attraverso la riflessione sul linguaggio e sulle categorie del pensiero, per primi hanno applicato le leggi della contraddizione dalla realtà naturale a quella socio-politica, arrivando ad affermare assieme a Democrito gli ideali cosmopoliti (quanto di più vicino all’internazionalismo moderno prodotto dall’antichità greco-romana), la naturale uguaglianza degli uomini (Antifonte), la messa in discussione della schiavitù e della nobiltà (Licofronte, Alcidamante), perfino della religione in sé (Crizia, Prodico di Ceo) oltre che dell’universalità delle leggi e dello Stato, che possono garantire dall’arbitrio, ma anche diventare arma a disposizione dei potenti (Trasimaco di Calcedonia).
Poi è arrivato Platone, aristocratico di nascita e difficile da inquadrare politicamente sulla base dei nostri paradigmi attuali. Ultrareazionario secondo Popper, classista perfino secondo Marx, rivoluzionario per una parte non indifferente dell’intellighenzia occidentale di origine marxista, a partire dal noto giudizio di Vegetti, grande allievo di Geymonat. Platone appare nella sua stessa dottrina contraddittorio e dialettico, perché se l’impianto complessivo della sua opera appare indubitabilmente antidemocratico e classista, lo svolgimento e le analisi proposte, figlie in una buona misura del confronto-scontro con il pitagorismo e la sofistica (oltre che con l’eleatismo ovviamente) hanno posto i semi del pensiero utopistico moderno, a partire dalla ripresa che ne farà Tommaso Moro in epoca rinascimentale.
Con Platone, uno dei pochi autori dell’antichità di cui ci siano rimaste (quasi?) tutte le opere, la dialettica cessa di essere una semplice téchne (quale era ancora in Socrate) per diventare l’atteggiamento del vero filosofo rivolto alla ricerca della verità. Nella Repubblica e del Fedone la dialettica si identifica con la filosofia stessa, costituita da due movimenti logici, reciprocamente inversi: uno di “unificazione” (universalizzazione), che dalle cose sensibili si eleva alle specie (“idee”), l’altro di divisione (particolarizzazione), che perviene al particolare seguendo le differenze interne ai vari generi. Nel posteriore neoplatonismo (Plotino) il duplice movimento in cui verrà individuata la dialettica sarà quello di derivazione delle cose dall’Uno e, rispettivamente, di ritorno a esso. Non si possono però dimenticare le innovazioni sulla dialettica introdotte da Parmenide nei dialoghi del Parmenide e del Sofista in cui essa si configura come la scienza che sa distinguere quali idee sono tra loro in rapporto e quali no. Questi dialoghi teorizzano la “comunanza” di essere e non essere contro la metafisica eleatica: ogni idea è sé stessa ma insieme non è nessuna delle altre dalle quali è diversa; partecipa quindi tanto dell’identità quanto del contrario dell’identità qual è appunto la diversità. E questa appare, in riferimento agli sviluppi dati nel Timeo e nelle opere non scritte, non solo come questione logica, ma perfino ontologica, collegandosi alla dottrina pitagorica sulla struttura matematica che caratterizzerebbe l’intera natura.
“A” quindi è “A” ma è anche “non-A”, verrebbe da dire.
Arriverà Aristotele a negare il carattere scientifico della dialettica (sapere solo “probabile”) e a gettare, con l’esplicitazione del principio di non contraddizione le grandi fondamenta della logica formale, pur riconoscendone il carattere di “postulato”, essendo il principio di non contraddizione non dimostrabile affermativamente, cioè razionalmente e scientificamente, ma solo per via “negativa” attraverso una brillante retorica confutatoria delle tesi degli scettici. Eppure la dialettica continuerà a sopravvivere nello stesso periodo nelle esperienze della scuola post-socratica di Megara, da cui si svilupperà la logica stoica, anch’essa di tipo formale ma difforme nell’impianto rispetto a quello aristotelico.
Apparentemente la dialettica scompare con l’avvento del cristianesimo e la riaffermazione di un principio fondatore della realtà (Dio) caratterizzato dalla negazione di contraddizioni interne, in quanto onnipotente, eterno, immutabile, ecc., ricalcando così in buona misura le caratteristiche già assegnate a suo tempo da Parmenide all’Essere. Nella stessa risoluzione data da Agostino (e prima di lui da Plotino) al problema dell’esistenza del male (la grande contraddizione) troviamo una spiegazione non dialettica: il male non esiste ontologicamente, ma è solo assenza di bene, ossia di essere; un’apparente mancanza dovuta non a dei limiti posti da Dio ma dalla sua volontà di consentirci di essere liberi. Da quel momento, per oltre 1000 anni, “A”, vero essere coincidente con il Bene in sé, ossia con Dio, è l’unica vera scelta a cui tendere, mentre “non A” diventa l’elemento demoniaco e maligno derivante dal peccato. Chi osa reintrodurre la dialettica degli opposti scade nell’eresia e rischia di fare una brutta fine, come mostrano le condanne ecclesiastiche delle opere di Abelardo e Guglielmo di Ockham.
Sarà però grazie al loro fondamentale contributo, assieme a quello di molti altri, che si incrineranno sotto il peso di molteplici picconi i fondamentali della filosofia metafisica e della parallela logica formale aristotelica, sempre più contestata a partire dall’età rinascimentale e moderna. Si approderà, passando da Giordano Bruno e Spinoza, all’illuminismo settecentesco, capace di riscoprire e sviluppare le migliori istanze del pensiero antico, medievale e moderno, tornando a criticare con ferocia le contraddizioni socio-politiche della società, senza ancora però approdare ad un pensiero dialettico maturo. Basti ricordare in tal senso il giudizio sulla dialettica dato da Kant, l’Aristotele dell’epoca moderna, che imputa a questa sorta di “sofistica” l’errore di oltrepassare i limiti delle capacità conoscitive umane, scadendo nell’affermazione illegittima di alcune “totalità” che sfuggono sistematicamente all’esperienza umana. Sulla scia dell’opera di Hume, Kant costruisce su solide basi i presupposti per l’intera epistemologia popperiana che sfocia nell’attuale trionfo del postmodernismo, con cui è suonata da oltre 40 anni l’apparente condanna a morte di ogni ideologia pretenziosa di conoscere definitivamente la realtà oggettiva nel suo complesso, osando per giunta pretendere di modificarla. Di qui la condanna del marxismo e la nuova apologetica dell’eterno presente borghese. Non si dovranno per questa ragione dare a Kant colpe non sue, né dimenticare come certe tecniche dialettiche siano presenti nella sua stessa opera, come mostrano i giudizi positivi dati del filosofo di Königsberg perfino da Lukàcs nella mastodontica critica dell’irrazionalismo filosofico presentata ne La distruzione della ragione.
Arriviamo così all’idealismo tedesco e alla necessità di ripartire da Hegel, su cui non a caso è tornato di recente uno dei massimi marxisti italiani, Vladimiro Giacché (Hegel. La dialettica, 2019). Non è stato però Hegel il primo a riaffermare la dialettica seguendo quel metodo “triadico” che l’ha reso famoso. Si tende spesso a dimenticare l’influenza esercitata su di lui da Fichte, il primo grande critico del criticismo kantiano e fondatore di quello che Hegel stesso definirà l’idealismo soggettivo. L’intera opera di Fichte, per molti aspetti accomunabile all’opera di Plotino, poggia sul tentativo di spiegare in termini laici come da un’unità assoluta primordiale si sia passati alle contraddizioni del molteplice. A e non A si ritrovano già nell’opera di Fichte, per quanto presentati come “Io” e “Non-Io”. Nella sua grandiosa e complessa opera l’intera realtà esistente viene spiegata attraverso la primordiale applicazione di una dialettica triadica fatta di tesi, antitesi e sintesi, espressa nei tre principi della Dottrina della Scienza:
1) «L’Io pone se stesso». Il primo passo di fondazione della ontologica trova il proprio corrispettivo logico nel principio di identità (A=A) che è universalmente riconosciuto come vero. Ha valore formale se applicato a qualsiasi ente diverso dall’Io perché non ne comporta l’esistenza (es. il triangolo è il triangolo) ma se A=A sta per Io=Io il principio riveste un significato sostanziale perché oltre a implicare l’identità (“Io sono Io”) afferma anche la realtà dell’Io (“Io sono”), intesa a sua volta come l’atto con cui il soggetto, affermandosi come identico a se stesso, si “pone” come tale (“Io sono, perché pongo me stesso”); di qui l’intuizione intellettuale con cui il soggetto non solo conosce se stesso ma “pone” se stesso, diventando principio della propria coscienza e del proprio stesso essere.
2) «L’io pone il non-io». L’Io, per mezzo della stessa attività con cui pone sé stesso, “oppone” a se stesso il Non-io, cioè pone una realtà che ha i caratteri opposti a quelli dell’Io, una realtà che è il contrario della soggettività e si presenta come indipendente da essa, come oggetto. Problema: essendo l’Io per definizione infinito, come può contrapporglisi il Non-io come qualcosa di esterno e altro da sé? Come può l’infinito essere limitato e determinato da qualcos’altro? La risposta sta nel terzo passaggio:
3) «All’interno dell’Io, l’Io oppone, nell’Io, all’Io divisibile un Non-io divisibile». L’opposizione del non-Io riguarda insomma un Io finito, divisibile, individuale ed empirico. L’opposizione tra Io finiti e Non-io è quindi tutta interna all’attività dell’Io infinito.
Ne deriva che da un lato l’Io pone sé stesso (in quanto Io empirico, o Io finito, ossia l’uomo inteso come singolo individuo) come determinato dal Non-io, dall’altro pone se stesso come determinante il Non-io. Le due diverse direzioni in cui si orienta l’attività di determinazione non sono infatti altro che le due attività stesse dell’Io: quella teoretica (la conoscenza) e quella pratica (la morale).
Spogliando il termine ambiguo di “Io” e sostituendolo con “A” si noterà che la contraddizione torna ad imperare in maniera similare (con tutte le dovute differenze, sia chiaro) alle elaborazioni dei nostri Autori che stiamo introducendo.
In genere gli studenti liceali cominciano a soffrire molto quando si affronta Kant, mentre quando si affronta Fichte non capiscono niente. Ciò dipende certamente dal carattere “idealista” della sua opera, che si scontra apertamente con il nostro senso comune dominante, solidamente materialista e “realista” (peraltro definitivo “dogmatico” da Fichte). In ogni caso l’elemento indubbiamente progressivo della sua opera è costituito proprio dalla riscoperta della dialettica, che lo conduce a criticare le istanze del liberalismo per teorizzare, tra i primi sulla scia della gloriosa rivoluzione francese, l’affermazione di uno Stato capace di tutelare i diritti sociali, giusto qualche anno prima dell’enunciazione dello “Stato etico” cui approderà anche Hegel.
Con quest’ultimo il discorso viene ulteriormente affinato. La struttura triadica di tesi, antitesi e sintesi riflette la dialettica, che è la legge della realtà (ontologia) e del sapere (logica). Concentriamoci sulla sua concezione dei tre momenti/aspetti del pensiero:
1) il momento astratto o intellettuale (tesi) consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre; è il grado più basso della ragione, in cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche e secondo i principi di identità e di non-contraddizione; si noti che per Hegel l’intelletto è un modo di pensare “statico” che “immobilizza” gli enti, risultando inadeguato a conoscere la realtà nel profondo (critica evidente a Kant);
2) il momento dialettico o negativo-razionale (antitesi) consiste nel mostrare l’astrattezza, l’unilateralità, la staticità delle determinazioni precedenti; ogni affermazione sottintende una negazione; per chiarire ciò che una cosa è bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è; è necessario andare oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte;
3) il momento speculativo o positivo/razionale (sintesi) consiste nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che sono espressioni di una realtà più alta che li ri-comprende o sintetizza entrambi. Ad esempio si scopre che la realtà vera non è né l’unità in astratto né la molteplicità in astratto ma un’unità che vive solo attraverso la molteplicità; si noti che la ragione va quindi oltre l’intelletto, costituendo una parte essenziale dell’antitesi e della sintesi, ossia prima negando le astrattezze dell’intelletto, poi cogliendo l’unità degli opposti e giungendo al vero.
In breve: la dialettica applicata al pensiero umano consiste nell’affermazione di un concetto astratto, nella sua negazione dialettica e infine nell’unificazione di affermazione e negazione in una sintesi speculativa e razionale; Hegel chiama quest’ultimo momento Aufhebunggggggfffffggg, alludendo al “togliere e insieme conservare” che è proprio della sintesi. L’intero processo è caratterizzato dal divenire e dalla riproposizione di nuovi sviluppi. “A” quindi non è mai definitivo, ma è sempre in pari tempo anche “non A”. Fin qui alcuni aspetti esposti nella Fenomenologia dello Spirito, ma nei lavori successivi dedicati alla logica, Hegel approfondisce sistematizza la riflessione e la critica dei principi di non contraddizione e di identità: il primo viene discusso e contestato perché non può coniugarsi con la realtà in cui la contraddizione è la molla di un divenire dialettico in cui sono sempre presenti negazioni (antitesi) che permettono il conseguimento di nuove sintesi; del secondo Hegel sostiene la necessità di una riformulazione, perché così posto presuppone una realtà ferma. La realtà è in divenire quindi gli enti non possono essere uguali a sé stessi. C’è bisogno di una modulazione triadica. Nel passaggio dall’“A” della tesi all’“A” della sintesi c’è un’identità ontologica all’interno di un percorso in divenire, non un’identità statica. Prima di procedere oltre varrà la pena ricordare quanto scritto da un grande studioso, noto per i suoi Principi elementari di filosofia, pubblicazione di corsi tenuti per i lavoratori all’Università operaia di Parigi all’inizio degli anni ’30:
«Hegel (1770-1831) seppe capire il cambiamento avvenuto nelle scienze. Riprendendo la vecchia idea di Eraclito, egli constatò, aiutato in questo dai progressi scientifici, che nell’universo tutto è movimento e cambiamento, che nulla è isolato ma che tutto dipende da tutto, e cosi creò la dialettica. Grazie a Hegel, oggi possiamo parlare di movimento dialettico del mondo. Ciò che Hegel ha innanzitutto afferrato è il movimento del pensiero e l’ha chiamato, naturalmente, dialettica. Ma Hegel è idealista, cioè dà rilievo preponderante allo spirito e, quindi, si fa una concezione particolare del movimento e del cambiamento. Pensa che siano i cambiamenti dello spirito a provocare i cambiamenti della materia. Per Hegel, l’universo è l’idea materializzata e, prima dell’universo, vi è innanzitutto lo spirito che scopre l’universo. In breve, egli constata che lo spirito e l’universo sono in perenne cambiamento ma ne conclude che i cambiamenti dello spirito determinano i cambiamenti della materia. Esempio: l’inventore ha un’idea, realizza la sua idea ed è questa idea materializzata che crea cambiamenti nella materia». (Georges Politzer)
Fin qui i pregi e i limiti di Hegel, che non hanno impedito a Marx di “civettare” con la sua tecnica, come viene ricordato dalla compagna Melia in uno dei saggi che seguono. Varrà la pena terminare ricordando come nel corso del ‘900 la dialettica sia stata purtroppo accolta per lo più in varianti del pensiero reazionario o conservatore (si vedano in tal senso Gentile e Croce): mentre essa trova ancora sponda nell’opera di Gramsci e Togliatti, il marxismo “occidentale” successivo, rinnegatore perfino della dialettica bolscevica, avvierà una feroce critica di tale categoria, non tardando ad abbandonarlo favorendo l’approdo a quella tendenza pratica da “anime belle” tanto criticata dallo stesso Hegel.
Si è accusato il materialismo dialettico di scadere in un “marxismo dogmatico”, non tanto per la questione del realismo gnoseologico, quanto soprattutto perché colpevole di applicare la dialettica alla natura; i marxisti occidentali hanno ritenuto lecito applicare la dialettica al solo mondo storico-umano, intendendo che della negazione (rispetto all’esistente storico) sia portatrice la prassi cosciente degli uomini. Negli ultimi anni alla dialettica ci si è richiamati prevalentemente in polemica con le posizioni empiristiche o positivistiche, accusandole di scientismo, di piatto oggettivismo, ecc., per esempio da parte della scuola di Francoforte (si pensi alla Dialettica negativa di Adorno) o dell’ultimo Sartre (Critica della ragione dialettica). Simmetricamente, l’epistemologia anglosassone contemporanea di origine popperiana, come abbiamo già accennato, contesta le basi logiche e la pretesa utilità ermeneutica della dialettica. Se possono apparire comprensibili e condivisibili le critiche riguardo al determinismo ottimistico che caratterizzerebbero la dialettica hegeliana, appaiono molto discutibili le stesse accuse alla dialettica marxista, fondata su letture parziali e distorte dell’opera di Marx ed Engels, per quanto derivanti dall’opera di “marxisti” deteriori come Kautsky e una lunga scia di prosecutori. Dato lo scenario in essere, si spera quindi che questo piccolo metalibro, unito all’opera di Sidoli, Burgio e Leoni, possa nel suo complesso contribuire a ridare slancio alla necessità di riscoprire la logica dialettica, per riaffermare le istanze del “non A” attualmente negate dalle élite borghesi, eppure sempre più indispensabili per garantire un futuro ad un’umanità che necessita di superare i limiti sempre più evidenti del sistema capitalistico.
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