LA SCUOLA ITALIANA TRA CONFORMISMO CULTURALE E REPRESSIONE

Gen 14, 2025 | articolo

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Relazione di Alessandro Pascale tenuta sabato 11 gennaio 2025 al circolo Scintilla di Milano in occasione dell’iniziativa nazionale di Prospettiva Unitaria.

Che l’ignoranza del popolo sia una delle condizioni migliori per il prosperare dei potenti è storia vecchia quanto l’umanità. Tale problema, quanto meno in Occidente, si credeva risolto con l’accesso universale all’istruzione pubblica. In realtà non basta saper leggere e scrivere, né l’acquisizione di una cultura minima, per sfuggire all’ignoranza e diventare un consapevole cittadino. «Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza», diceva Eraclito, monito perenne per tutti i laureati che vorrebbero togliere il diritto di voto al 30% di analfabeti disfunzionali presenti nel Paese. Il modo migliore per governare un popolo è imporgli la propria visione del mondo, perpetuando la propria ideologia. Questo rimane vero tutt’oggi.

La scuola pubblica universale da strumento di emancipazione quale è storicamente stata si sta tramutando nel più raffinato strumento del totalitarismo liberale. La visione borghese che caratterizza tale regime vuole una scuola che crei lavoratori pacifici e passivi socialmente.

La visione socialista vuole una scuola organicamente umanista che forgi cittadini critici e attivi socialmente, in cui la realizzazione di sé passi anche, ma non solo, dal lavoro. Un lavoro che dovrebbe essere sempre più libero, variegato e creativo, senza dipendere da un contratto salariale privato. Per garantire un progresso umanista nella società occidentale odierna la prima necessità è quella di ridare centralità alle materie umanistiche e non soltanto a quelle tecniche. Mente e corpo vanno armonizzati e valorizzati entrambi, accompagnando gli individui in una crescita collettiva sia materiale che spirituale. L’intellettuale collettivo sorgerebbe rapidamente grazie all’insegnamento della disciplina che più di tutte riesce a favorire la costruzione di uno spirito critico: la filosofia. Non è un caso che la riforma Gentile prevedesse che tale disciplina fosse riservata solo ai licei, mentre per gli altri livelli e tipologie di scuole bastassero i rudimenti della religione impartiti da insegnanti scelti dalla Chiesa cattolica. Nella visione socialista non c’è quindi conformismo né repressione: l’intera popolazione deve tendere non solo al superamento della distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma deve conquistare gli strumenti critici e analitici necessari per far progredire culturalmente sé stessa e la società nel suo complesso.

Siccome non viviamo in una società socialista, ma in una società borghese, subiamo oggi una scuola “borghese”, su cui così si esprimeva un classico quale l’ABC del Comunismo:

«Nella società borghese la scuola persegue tre scopi principali: educare la giovane generazione dei lavoratori a uno spirito di devozione e di rispetto verso il regime capitalistico; preparare, fra la gioventù, delle classi dirigenti di ammaestratori “istruiti” per il popolo lavoratore; servire la produzione capitalistica, utilizzando la scienza per perfezionare la tecnica industriale ed aumentare il profitto dei capitalisti […]. L’insegnamento nelle scuole primarie borghesi viene impartito seguendo un certo programma, conforme ai fini di “ammaestramento capitalistico” degli allievi. Tutti i libri scolastici sono scritti nello stesso spirito».

IL CASO ITALIANO

Nel compiuto totalitarismo “liberale” italiano, la scuola pubblica imposta negli ultimi 30 anni dalle élite è una “scuola neoliberista”, “digitale”, delle “competenze”, “inclusiva”, che si è affermata dopo un ciclo di riforme partite da Berlinguer (1997) che ha smantellato la “scuola democratica” della Prima Repubblica. La riforma sull’“autonomia” ha favorito il sorgere di istituti di serie A e di serie B ed è accusato da più parti di aver introdotto logiche e pratiche “aziendaliste” in un settore che dovrebbe esserne esente. La ristrutturazione profonda dell’istruzione pubblica è conseguenza dello scenario internazionale degli anni ’90 che vede un’Italia sempre più saldamente ancorata al blocco imperialista occidentale.

Si è iniziato con una campagna propagandistica che batte sulle tesi “anti-nozionistiche” figlie della protesta del ’68: si è sbandierata la volontà di costruire una scuola in cui gli studenti non imparassero solo un sapere erudito ma inutile praticamente, spiegando di voler insegnare agli studenti a maneggiare i saperi ottenuti, attraverso lo sviluppo delle “competenze”. Il problema è che la coperta è corta. Inserire attività dedicate alle “competenze” spesso e volentieri si traduce in una riduzione del tempo dedicato al processo di trasmissione delle conoscenze, con un graduale peggioramento dell’offerta. L’abbassamento continuo delle conoscenze richieste agli studenti è sotto gli occhi di tutti i docenti che hanno qualche decade di esperienza alle spalle.

Al di là delle ipotetiche buone intenzioni, la didattica delle competenze ha impoverito l’acquisizione delle conoscenze di base, il che rende spesso impossibile esercitare competenze adeguate, dato che il possesso delle prime è condizione necessaria per l’acquisizione delle seconde. Il Ministero ha affermato l’importanza di sviluppare la «trasversalità», ma questa necessita di una conoscenza solida delle varie discipline, altrimenti ci si trova a collegare il nulla. L’idea dei Ministeri che si susseguono (siano essi di centro-destra o centro-sinistra) è invece sostituire le discipline con questi argomenti in generale, semplificando enormemente i programmi. Un progetto che ha trovato piena conferma con la riforma dell’esame di maturità. Notate: mentre una parte importante del popolo viene privato dell’accesso pubblico a competenze avanzate, queste continuano ad essere fornite solo ad una ristretta élite che si caratterizza per la sua ricchezza e le sue relazioni, che sfrutta per mandare i propri figli alle scuole e università private più solide e prestigiose.

Ciò alimenta un sistema gerarchico semi-castale e feudale nei fatti, limitando notevolmente l’effettiva mobilità sociale, come fanno peraltro anche i progetti PCTO: in una società borghese i progetti di alternanza scuola-lavoro come questo servono ad educare acriticamente le nuove generazioni a forme di lavoro manuale non specializzato, non sindacalizzato e privo di diritti, oltre a favorire l’introiezione di schemi ideologici di classe. Basti pensare che in molte scuole a fare attività PCTO, valevole per Educazione Civica, sono le aziende e le banche. A trattare la questione ambientale è l’ENI…

I docenti, stressati dalla crescente burocrazia e dalla necessità di inventare curriculi di didattica orientativa (30 ore), educazione civica (33 ore) e PCTO, si fanno andar bene tutto. Sbagliando, perché tali programmi servono a perpetuare la divisione in classi della società, come emerge peraltro anche dai rapporti OCSE, i quali mostrano come la scarsa mobilità sociale sia da porre in relazione alla conformazione del sistema scolastico.

L’ATTACCO ALLA STORIA

Qualche anno fa Cuzzi, docente di storia contemporanea all’Università Statale di Milano. riportava un sondaggio fatto in aula durante le sue lezioni a 200 studenti: «fino a dove siete arrivati al liceo?» Il 98% è arrivato al 1939. L’80% è arrivato al 1945. Il 30% è arrivato al 1989-91. Solo il 5% ha affrontato gli anni ’90. Vorrei ricordare tutta l’opera di Giovanni Carosotti, che denuncia da anni l’attacco ricevuto dalla Storia, sfociato di recente perfino all’eliminazione della traccia di tema alla Maturità, oltre che della “terza prova”.

La revisione dei manuali scolastici, che ha portato all’abbattimento delle sezioni di storiografia (dalle 20-30 letture del Desideri-Themelly degli anni ’90 alle 4 letture medie dell’ultima edizione) e tutte le iniziative politiche più importanti del Ministero e delle istituzioni repubblicane – tra queste ricordiamo l’operazione del giorno del ricordo (10 febbraio) – sono funzionali ad un sistematico revisionismo storico che non deve essere scoperto. Gli studenti italiani non devono conoscere i crimini dell’imperialismo occidentale, né cosa sia stato lo stragismo in Italia, né il fatto che siamo tuttora un paese “a sovranità limitata” da parte degli USA.

UN ATTACCO ALLA CULTURA DEL POPOLO

L’attacco non è solo alla storia ma a tutte le discipline: anche la geografia è scomparsa da tempo, ma perfino l’italiano, la matematica («non si dimostrano più i teoremi al liceo»), le lingue classiche (vd la retorica «contro le traduzioni»). La conclusione è perentoria: «È un attacco alla cultura» (Russo)

I giovani non devono avere gli strumenti per capire di vivere in un mondo truccato alla radice. Non devono contestare la costruzione europea né pretendere diritti diversi da quelli che sono stati previsti per loro. Non devono capire come contestare il futuro fatto di disoccupazione, precarietà e sfruttamento. La demonizzazione del comunismo e di qualsiasi altra versione alternativa al totalitarismo “liberale” è funzionale all’obiettivo di farne lavoratori conformisti, ossia privi di un’idea alternativa di società; se poi non saranno pienamente competenti non è importante; basta che siano rassegnati ad essere manovalanza a basso costo. Al limite i più “svegli” saranno pure contenti di andarsene all’estero per trovare sorte migliore, sfruttando le frontiere aperte garantite dall’UE. Non stupisce che dal 2011 al 2023 siano 550 mila i giovani italiani di 18-34 anni emigrati all’estero. Questo è il progetto in corso: un piano politico premeditato e criminale.

Perché però c’è questo masochismo di non volere davvero quelle competenze che vengono invece sbandierate? La ragione è “strutturale”: con la globalizzazione, dal punto di vista produttivo e tecnologico ci sono state una concentrazione e innovazione tali per cui non c’è più bisogno di un cospicuo ceto dirigente. Non c’è bisogno di avere milioni di persone che sappiano riparare un computer; pochissimi sono in grado di rispondere alle esigenze. Non è necessario sviluppare più tecnici del dovuto in questo e altri settori. Ne consegue un processo di «rarefazione delle competenze in tutti i campi». Anche da questo lato vediamo un calo della mobilità sociale: una volta esisteva un vasto ceto medio che oggi sta scomparendo, a fronte di una composizione sociale che prevede un’élite ristretta e una massa dequalificata.

Oggi ha senso studiare solo per capire il mondo in cui si vive ma lo studio non ha più la funzione sociale di ascesa sociale che aveva una volta. La richiesta di competenze c’è ancora, ma riguarda una piccola minoranza. Il modello di riferimento sono gli USA, in cui si trova un 95% di scuole dequalificate e una piccola serie di scuole di alto livello che sfornano i tecnici necessari.

Al fine di tutelare il proprio dominio di classe sulle moltitudini, la civiltà borghese ci sta precipitando in quella che Russo ha chiamato «un’involuzione irrazionalistica e anti-scientifica» paragonandola a quella verificatasi nel II secolo a.C. nella civiltà greco-romana.

COME RISPONDERE

Non pochi docenti in Italia hanno consapevolezza, sia pur solo parziale, di queste questioni, ma nella loro azione politica di protesta si scontrano spesso contro i primi gendarmi: i dirigenti scolastici, i cui poteri si sono rafforzati e in diverse scuole sono esercitati con il pugno di ferro andando a punire ad personam i docenti considerati “ribelli”.

Io stesso ho vissuto questa esperienza nel mio primo triennio di ruolo come docente di storia e filosofia al Liceo Parini di Milano, in cui mi è stato tolto l’insegnamento nelle classi quarte e nelle quinte, cioè degli anni in cui si trattano i periodi dell’età moderna e contemporanea. Confinato senza spiegazioni per un anno in tre classi terze, in cui il programma prevede filosofia antica e medievale e la storia medievale, senza rispettare il criterio di continuità che è quello indicato dal Ministero.

L’esperienza di mobbing che ho subito mi ha spinto a denunciare politicamente l’accaduto grazie ad un’interpellanza parlamentare di Emanuele Dessì. Il tentativo di normalizzazione e controllo dell’istruzione pubblica sta giungendo a picchi inediti di repressione per disciplinare il corpo docente (come tutto il resto della classe lavoratrice del resto). Occorre rivendicare e difendere l’articolo 33 della Costituzione: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

Si arriva al momento decisivo di proclamazione di uno sciopero indetto grazie al supporto del Sindacato Generale di Classe e perfino le RSU interne, eletti in quote del sindacalismo confederale, si schierano con il Dirigente Scolastico. Questo accade in uno dei più blasonati licei classici di Milano, e purtroppo cose del genere accadono ogni giorno nelle scuole di ogni grado e località in tutto il paese, nella mestizia e rassegnazione generale.

Ho potuto constatare quanto possano diventare pesanti le conseguenze per chi lotta: non solo lo stress psicologico, ma anche il degrado crescente della vita socio-lavorativa, dove ti aspetteresti una solidarietà totale tra i colleghi docenti e gli studenti, e invece ti accorgi che pochi si mobilitano e si uniscono alla lotta, mentre i più preferiscono non esporsi e scarse sono le pacche sulle spalle. Alla fine il metodo più semplice è sfruttare il diritto di trasferimento in un altro istituto, ma così muore la scuola pubblica in Italia. Così muore la libertà d’insegnamento, e con essa anche uno degli ultimi bastioni della libertà di pensiero e di formazione di uno spirito critico nelle nuove generazioni. A noi il compito di resistere e rivoluzionare questo sistema marcio fino al midollo, rivendicando una scuola realmente libera e democratica da ogni asfissiante controllo politico.

I docenti, gli studenti e tutti i lavoratori ATA devono organizzarsi e coordinarsi con un intervento comune. Non è possibile ottenere avanzamenti se non si assume consapevolezza che la battaglia fa parte di una guerra più grande, di classe, volta contro il complesso della classe lavoratrice, italiana e non. Se l’offensiva è di tali proporzioni, e se il regime dispone del completo controllo dei media e di altre preziose tecniche che ne garantiscono il controllo sociale, occorre interrogarsi sul limite di offrire dettagliati quadri analitici che non sfocino in un’azione politica concreta. Il movimento, e con esso tutti gli studenti e i progressisti, devono cominciare anzitutto ad accettare l’idea di vivere in una forma moderna di regime, Le attuali rappresentanze politiche parlamentari sono totalmente inadeguate, per scelta o per incompetenza, a dare rappresentanza al movimento. Occorre cercare alleanze nella società civile e nelle forze sociali, politiche e culturali rimaste sane nel Paese, ma bisogna attrezzarsi per una guerra di resistenza permanente. Non c’è tempo per concedersi il lusso della rassegnazione.

Bisogna lavorare a coordinare e far conoscere le esperienze di repressione che colpiscono lavoratori e studenti, organizzare appelli e difese legali, ed in pari tempo lavorare alla diffusione di centri di cultura: costruire e curare biblioteche locali, organizzare lezioni, seminari, circoli popolari, case del popolo, scuole popolari, corsi e magari viaggi all’estero, che hanno un valore educativo e rafforzano i legami fra i lavoratori di tutti i Paesi.

L’invito a tutti è di unirsi a noi per rafforzare la presenza sul territorio e per sviluppare un coordinamento politico dei suoi membri riconducibili al mondo della Scuola. Il progetto di Prospettiva Unitaria, che presenteremo il 25 gennaio a Roma, si mette a disposizione di tutti per costruire assieme nei tempi più rapidi possibili il partito comunista, ossia la migliore organizzazione possibile per gli oppressi che intendono rivoluzionare la realtà.

Alessandro Pascale, Responsabile Dipartimenti Formazione e Scuola di Resistenza Popolare

 

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