ASCESA E CARATTERISTICHE DEL TOTALITARISMO LIBERALE

Ott 12, 2024 | articolo

Di Alessandro Pascale – Resistenza Popolare

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La presente relazione è stata tenuta a Roma il 6 ottobre 2024, in occasione della IV sessione del Forum organizzato dalla Rete dei Comunisti dedicato al tema “Elogio del comunismo del Novecento”.

Il tema di cui tratterò riguarda il particolare tipo di regime che si è realizzato in Occidente negli ultimi 30 anni a seguito dell’intreccio tra la crisi del movimento comunista filosovietico, e del parallelo affinamento delle tecniche imperialiste di controllo sociale. Lo definisco un totalitarismo “liberale”, ossia una fase particolare della dittatura della borghesia, in cui questa classe è riuscita ad affermare in maniera pressoché totale non solo le proprie politiche economiche, ma anche il proprio modo di pensare e categorizzare la realtà; ciò ha comportato la piena vittoria della sua ideologia, il liberalismo, riuscendo a emarginare ogni altro paradigma politico alternativo, compreso quella marxista. Il totalitarismo liberale è la consacrazione del TINA (There is no alternative), ossia l’affermazione nel senso comune popolare dell’idea che non ci siano alternative possibili al modo di produzione capitalistico. Uso il termine “totalitarismo” non nel senso pessimistico di un controllo totalizzante, ma per descrivere simbolicamente il livello egemonico inedito raggiunto dalle classi dominanti sulla stragrande maggioranza della popolazione, riducendo all’insignificanza politica le capacità teoriche e pratiche della gran parte del proletariato, che dopo un secolo e mezzo di emancipazione intellettuale ed organizzativa, è tornato ad affidarsi alla guida politica di esponenti ed organizzazioni borghesi.

Questi temi erano ben presenti a Marx ed Engels, che già negli anni giovanili concludevano che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” e che il proletariato dovesse dotarsi di proprie organizzazioni di classe, emancipandosi dalla direzione borghese. Le gravi contraddizioni materiali derivanti però dall’industrializzazione nel XIX secolo, e ancora per la gran parte del XX secolo, risultavano in ogni caso ancora prevalenti rispetto alla capacità borghese di operare una “rivoluzione passiva”, ossia di imporre, grazie anche a misurate e contenute concessioni materiali, una certa ideologia, ossia una visione distorta della realtà, sulla maggioranza del proletariato, riuscendo ad attirare piuttosto nei propri ranghi gli strati dell’aristocrazia operaia, quelli che la borghesia chiama “ceti medi”.

Se pensatori come Lafargue e Lenin avevano dedicato attenzione al tema, è con Gramsci e la scuola di Francoforte che ci si è resi conto della sempre maggiore sussunzione entro schemi borghesi delle classi proletarie.

Che il capitalismo sia approdato ad un dominio totalitario è stato affermato da allora, più o meno esplicitamente, da molti autori: per primo negli anni ’60 da Herbert Marcuse, osservatore privilegiato della finta democrazia statunitense, in cui le élite borghesi sono riuscite a esprimere o controllare tutte le dirigenze politiche almeno dalla fine del XIX secolo. Ne L’uomo a una dimensione (1964) Marcuse afferma che il capitalismo avanzato crea una società ultra-conformista in cui le libertà sono limitate dalla manipolazione e dal controllo dei bisogni attraverso i mass media e la tecnologia. Nello stesso periodo Guy Débord ne La società dello spettacolo (1967), critica il capitalismo moderno come un sistema che riduce la vita sociale a una mera rappresentazione spettacolare, dove le relazioni autentiche sono sostituite da immagini e simulacri, creando le premesse per una forma di controllo totalitario che aliena gli individui dalla realtà e dai veri rapporti sociali. Negli anni ’70 Harry Braverman nel suo libro Lavoro e capitale monopolistico (1974), sostiene che il capitalismo moderno e il taylorismo, riducendo i lavoratori a semplici ingranaggi di una macchina produttiva, esercitano un controllo totale sulle loro vite lavorative. Michael Parenti ha parlato di una “Democrazia per pochi” (1974), criticando il sistema capitalista per il suo potere coercitivo e la sua capacità di manipolare le istituzioni democratiche. Alla fine del decennio Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo (1979), giudica il capitalismo responsabile di una cultura dell’individualismo estremo e della competizione, che porta a una forma di controllo sociale attraverso l’auto-sorveglianza e il conformismo. Sono anni in cui Michel Foucault, con la sua teoria della biopolitica e dei micropoteri, denuncia un crescente controllo sociale forgiato attraverso pratiche quotidiane e regolamentazione della vita: un potere più sottile, pervasivo e nascosto, che gestisce la vita attraverso norme e regolamenti. Un controllo non apertamente oppressivo ma che si manifesta attraverso discipline, sorveglianza e normalizzazione. Fin dagli anni ’80 Noam Chomsky ha criticato il capitalismo per la sua tendenza a creare sistemi di controllo e oppressione attraverso le multinazionali e le élite economiche. In opere come La fabbrica del consenso (1988), Chomsky denuncia le tendenze totalitarie dei mass media, utilizzati per manipolare l’opinione pubblica e sostenere gli interessi delle élite. Negli anni ‘90 Robert Kurz nell’opera Il collasso della modernizzazione (1991) spiega come il capitalismo globale crei una forma di controllo totalitario attraverso la mercificazione e la finanziarizzazione della vita quotidiana, mentre Richard Sennett, ne L’uomo flessibile (1998), esplora come il modello neoliberista e il lavoro precario abbiano eroso le certezze e le identità personali, esercitando un forte controllo psicologico e sociale. La precarietà lavorativa e sociale genera quella “modernità liquida” di cui ha parlato Zygmunt Bauman descrivendo una fase storica in cui le strutture sociali diventano sempre più fluide, instabili e temporanee, generando una crescente precarietà nella vita individuale e nel campo intellettuale, con il conseguente rigetto di ogni ideologia “forte”. La deregolamentazione economica, la globalizzazione e la finanziarizzazione, pilastri del neoliberismo, oltre a trasformare il mercato del lavoro, hanno stravolto i rapporti sociali e l’identità individuale, generando una popolazione atomizzata e incapace di organizzarsi collettivamente. Una popolazione disarmata ideologicamente che cede così al paradigma del postmodernismo, l’ideologia del tardo capitalismo, per dirla con le parole del compianto Fredric Jameson: il postmodernismo è una condizione alienante caratterizzata dalla perdita di profondità, dalla fusione di cultura e mercato, e dalla difficoltà di pensare una trasformazione rivoluzionaria, perché la stessa capacità di immaginare alternative radicali al capitalismo viene erosa da un sistema in grado di assorbire l’intera esistenza umana. In tempi più recenti David Harvey ha mostrato nella Breve storia del neoliberismo (2005), come questo sistema abbia rafforzato il potere delle élite economiche, limitando ulteriormente le libertà democratiche, mentre Slavoj Žižek ha criticato il capitalismo globale come un sistema che, sotto la maschera della democrazia e della libertà di mercato, esercita un controllo pervasivo e totalitario sulla vita sociale, integrando e neutralizzando le critiche, rendendo così difficile ogni forma di resistenza significativa. Oggi viene riscoperto il Realismo capitalista (2009) di Mark Fisher, che descrive come il controllo ideologico-culturale esercitato dal capitalismo sfoci in una forma di realismo totalizzante che rende difficile immaginare alternative. Le denunce di Edward Snowden e il paradigma del “capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff in tempi recenti hanno mostrato come perfino internet e i moderni mezzi informatici siano stati piegati a questa logica di controllo.

Questo ampio filone di critici, una parte dei quali riconducibili al cosiddetto “marxismo occidentale”, ha avuto sicuramente il merito di tenere aperta una critica rilevante nei confronti del regime attuale. Il loro limite è stato non aver saputo offrire una soluzione indicando un’alternativa politica, e questo è dovuto in primo luogo al loro rigetto pressoché totale del socialismo reale novecentesco, considerato da alcuni altrettanto totalitario dei modelli capitalistici occidentali. L’intellighenzia occidentale negli anni della guerra fredda è complessivamente scivolata da un’adesione ad un marxismo sempre più eterodosso, ad un idealismo liberale radicale critico ma utopistico. Il movimento comunista occidentale nel suo complesso ha seguito questa stessa china, seppur in tempi e modi diversi.

Ci sono ragioni precise di questa degenerazione: il dato centrale è che i processi del passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico – ossia all’imperialismo – e il sorgere di una società di massa immersa nell’alienazione consumistica (vd Pasolini), hanno creato i presupposti di una società totalitaria molto più efficace rispetto a quella nazifascista, perché fondata esteriormente sulla valorizzazione teorica e pratica di libertà civili sviluppate. Ne deriva un regime in cui si può continuare a contestare il potere, ma rimanendo per lo più inconsapevolmente negli schemi mentali del nemico, e quindi scadendo in soluzioni politiche non solo compatibili con il sistema, ma perfino in grado di rafforzarne la tenuta. La caratteristica politica principale di questo regime consiste nella capacità di controllare sia le maggioranze di governo, che le opposizioni: non solo quelle principali – dando luogo a finti bipolarismi – ma spesso anche quelle minori, convogliando una parte consistente del malessere popolare verso piattaforme e leader organici al sistema. Un esempio forte è costituito dalla mutazione storica della socialdemocrazia, diventata il più forte perno del social-imperialismo moderno, un sistema che nei suoi fondamentali non è così dissimile dal nazional-socialismo di Hitler, differenziandosi solo per un rigetto formale, ma non sostanziale, delle ideologie razziste, oltre che per l’accettazione di istituzioni fondate sullo stato di diritto, sulla divisione dei poteri e sul pluralismo partitico: strumenti che usati sapientemente impediscono il rafforzamento di reali alternative al capitalismo, come spiegato da autori come Huberman e Charles Wright Mills.

Ci sono molte altre cause, materiali e culturali, oggettive e soggettive, della degenerazione ideologica e politica che ha condotto alla crisi finale di Mosca e dei suoi alleati: non si possono qui ricordarle tutte, ma va fatto almeno un accenno alla sciagurata denuncia dello “stalinismo” da parte di Chruscev al XX Congresso del PCUS del 1956. Il suo discorso, non concordato con il gruppo dirigente del Partito – e pieno di falsità che sono state smontate definitivamente solo negli ultimi anni – ha danneggiato l’immagine non solo di Stalin, ma del comunismo come alternativa possibile, creando le premesse di lungo termine per la perdita di credibilità del paradigma marxista-leninista e del modello sovietico nel suo complesso, aprendo il campo alle “vie nazionali al socialismo” i cui risultati sono stati molto magri – con la significativa eccezione cinese, che proprio per il suo peso attuale va sicuramente attenzionata, rispettata e difesa dalle critiche di chi scade nel dogmatismo.

Di fronte al crollo del socialismo reale il residuale movimento comunista occidentale è degenerato rapidamente, sacrificando sull’altare non solo Stalin e Mao, ma anche Lenin ed Engels, rimanendo attaccato al solo Marx e avviando al più la riscoperta di altre correnti socialiste e marxiste eterodosse. L’abbandono del leninismo ha alimentato l’incapacità di contenere l’offensiva neoliberista, sfociata in una “seconda restaurazione” su cui si è eretto l’attuale totalitarismo “liberale” o, se preferite, “capitalista”, “borghese”: un regime capace di perpetuare se stesso grazie al controllo pressoché totale esercitato da una ristretta élite borghese transnazionale non solo sulle strutture economiche e politiche, ma anche su quelle culturali – compresi i circuiti mediatici principali e l’istruzione scolastica e accademica, che vanno a forgiare laureati ancor più indottrinati e arroganti. Questo regime continua a sussistere in Occidente nella sfera ideologica nonostante la crisi oggettiva di fiducia verso gli attuali gruppi dirigenti. Stando ad un rapporto del CENSIS del 2021, più del 50% degli italiani è convinto che esista una casta mondiale di superpotenti che controlla tutto, che le multinazionali sono le responsabili di tutto ciò che accade, e che esiste uno “Stato profondo”, non pienamente democratico, nelle mani di un gruppo di potenti composto da politici, alti burocrati e uomini d’affari. Questa coscienza diffusa del carattere elitario dell’attuale regime non si è però accompagnata ad una ripresa di paradigmi social-comunisti.

C’è quindi ampia consapevolezza dei limiti del sistema, ma manca l’idea di un’alternativa possibile. Possiamo riassumere il senso comune dominante con un paio di furbe formule di illustri rappresentanti della borghesia: il primo, Winston Churchill, eminente reazionario anticomunista, riconosceva che «il vizio tipico del capitalismo è l’ineguale distribuzione della ricchezza», ma anche che «la virtù intrinseca del socialismo è l’equa ripartizione della miseria». Il secondo, punto di riferimento della socialdemocrazia moderna, è John Maynard Keynes: «Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi».

A 35 anni dalla caduta del muro di Berlino i comunisti non sono ancora riusciti a concretizzare una proposta moderna di un socialismo possibile per l’Occidente. Non solo, ma spesso sono regrediti su molti temi, tra cui in primo luogo l’analisi delle questioni internazionali e dell’imperialismo, dove in troppi blaterano di “opposti imperialismi” e rifiutano di riconoscere la legittimità degli sviluppi del Partito Comunista Cinese e del “marxismo orientale”; altri accusano di “stalinismo” o “rossobrunismo” chi difende il socialismo reale spiegando che la sua demonizzazione è conseguenza di un’efficace battaglia delle idee condotta dalla borghesia. Sia chiaro: la risposta ai nostri problemi non passa dall’elogio acritico del comunismo novecentesco, né dal mero recupero del marxismo-leninismo, ma certo è indispensabile spazzare via la mole di fango che è stata gettata dalla borghesia e dai critici di sinistra su tali sistemi e paradigmi. Trovare un bilancio equilibrato di queste esperienze senza essere subalterni al pensiero borghese è il primo passo necessario per gettare l’acqua sporca salvando il bambino, per usare una metafora cara agli organizzatori di questo meritorio evento.

Per ridare credibilità alla questione comunista non ci sono ricette magiche, ma credo siano necessari alcuni accorgimenti che andrei ad elencare di seguito:

  1. Continuare il riesame storico dell’ultimo secolo e combattere senza tregua il dilagante revisionismo anticomunista, concentrando l’attenzione sui meriti e le conquiste della nostra storia. I limiti, che pure ci sono stati, non vanno negati, ma storicizzati, identificandone la genesi nella violenta controffensiva borghese verso ogni forma di socialismo.

  2. Avere il coraggio di recuperare, valorizzare e approfondire il metodo di indagine della realtà proprio dei maestri del socialismo: non solo il materialismo storico, ma anche la dialettica materialista. Acquisire tale forma mentis apre la via alla lotta contro l’alienazione e la disinformazione sistematica che caratterizzano l’attuale regime.

  3. Prendere atto del livello pervasivo di condizionamento derivante dall’intreccio tra concentrazione estrema del potere e avvento del sistema industrial-tecnologico moderno. Nel contesto degli ultimi anni assume un valore particolare l’affermazione marxiana che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Un regime elitario è in grado di determinare la coscienza dei singoli. Sotto l’imperialismo, in assenza di una significativa opposizione di classe, la struttura politica dominata da pochi borghesi può controllare milioni di persone senza colpo ferire. Che Guevara ha riassunto affermando che “le leggi del capitalismo, cieche e invisibili per il senso comune della gente, agiscono sull’individuo senza che questi se ne accorga”.

  4. L’imperialismo ha condotto in Occidente ad una concentrazione delle ricchezze maggiore rispetto ad un secolo fa. Molti studi hanno mostrato che poche migliaia di persone detengono il controllo delle principali strutture economiche mondiali. Adeguatamente organizzate, queste élite sono in grado di controllare e determinare non solo le agende politiche e mediatiche, ma anche questo condizionamento sociale di massa. Dobbiamo indagare e svelare gli strumenti di coordinamento della borghesia transnazionale, mostrando il carattere fittizio della democrazia liberale. Dobbiamo descrivere le modalità operative e l’operato classista non solo delle multinazionali occidentali, ma anche di organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Unione Europea, la NATO, il World Economic Forum, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), l’OCSE, l’OMS, la Commissione Trilaterale, il Club di Roma, il club Bilderberg, il Council of Foreign Relations, la Royal Institute for International Affairs, il Comitato dei 300 e le svariate organizzazioni di stampo massonico organizzate in scale gerarchiche piramidali. Questo non è “complottismo”, termine non a caso inventato dall’FBI, ma la dimostrazione concreta che le élite dispongono di strumenti per coordinarsi e controllare centinaia (forse migliaia?) di organizzazioni collaterali, tra cui la gran parte delle ONG e delle Fondazioni più rilevanti esistenti. Chi non affronta questo tema, riconoscendo che l’agire politico-sociale non è sempre dettato da una razionalità economica, non capirà molte delle svolte future che aspettano l’umanità, così come molti non hanno ancora capito le implicazioni sotterranee della passata pandemia covid-19.

  5. Chiudo ricordando che la consapevolezza di vivere in una forma occulta di totalitarismo non impedisce né vanifica il senso e la necessità della militanza e della lotta, ma aiuta ad accrescere la consapevolezza delle forze in campo e la responsabilità storica che abbiamo di ricostruire l’avanguardia politica degli sfruttati. I comunisti potranno tornare ad intaccare l’egemonia borghese quando avranno aggiornato i propri paradigmi e ricostruito una forte unità organizzativa e politica contro il nemico comune. L’appello che faccio in rappresentanza di Resistenza Popolare è il seguente: procedendo in maniera sparsa, andando a traino delle mode e di personalità più o meno plasmate dal regime, non si riuscirà a ricostruire le casematte necessarie per rispondere alla guerra di classe con cui siamo stati colpiti nell’ultimo mezzo secolo, né tantomeno a dare una risposta al popolo riguardo alla terza guerra mondiale in atto. I singoli e i gruppetti da soli non potranno scalfire questo sistema; se saremo capaci di unirci si potrà invece diventare rapidamente un punto di riferimento per le anime più combattive e le coscienze pensanti di questo Paese. Abbiamo il dovere di superare le divisioni esistenti al nostro interno, e lavorare al rafforzamento di un fronte antimperialista di massa per sostenere l’Asse internazionale della Resistenza e procedere nei tempi più rapidi alla ricostruzione di un unico grande partito comunista per sostenere il popolo nella lotta al regime e nell’affermazione di una società socialista.

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