Attualità e problemi del Manifesto del Partito Comunista

Feb 1, 2023 | articolo

Di seguito il 2° incontro della scuola popolare Antonio Gramsci organizzata dal Partito Comunista di Milano. 
Alessandro Pascale, di recente nominato responsabile della formazione del Partito Comunista, parla del Manifesto del Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Non solo facendo riferimento alla sua validità ancora oggi ma anche alle problematiche teoriche e pratiche che ha posto e che pone tutt’oggi a tutti i comunisti.
IL TESTO CHE SEGUE È LA RELAZIONE SCRITTA DEL VIDEO ED È SCARICABILE IN FORMATO PDF QUI

 

ATTUALITÀ E PROBLEMI DEL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

Relazione tenuta nell’ambito della scuola di formazione politica Antonio Gramsci, organizzata dal Partito Comunista. Presentazione fatta il 28 gennaio 2023 presso i locali della cooperativa La Liberazione di Milano. È disponibile la registrazione video caricata sulla pagina youtube del Partito Comunista Milano (@pcmilano).1

IL CONTESTO STORICO DEL 1848

Partiamo dal contestualizzare storicamente il testo: il Manifesto del Partito Comunista viene pubblicato nel febbraio 1848. Il contesto storico è molto importante e particolare: sono appena scoppiate alcune rivolte nel sud Italia e in Francia. È l’inizio dei “moti del ’48” che metteranno fine ad un trentennio di oppressione politica delle libertà civile che ricordiamo come la stagione della “restaurazione”.

Il contesto è quello dell’Europa dell’industrializzazione, facendo emergere in maniera diffusa la questione del proletariato, della classe operaia, che subisce una serie di conseguenze sociali sempre più devastanti, come vedremo proprio nella descrizione del testo. Senza dilungarsi, è importante ricordare che il Manifesto esce in questo contesto di passaggio tra due epoche: il ’48-49 segna la fine, il canto del cigno del primato assoluto dell’aristocrazia intesa come ceto e classe dominante, e segna invece il passaggio al vertice in sempre più paesi della borghesia.

Per inquadrare come si deve il contesto storico e anche le vicende dei protagonisti di questo testo (Marx ed Engels) rimane particolarmente consigliato il film Il giovane Marx, opera uscita da pochi anni che oltre ad essere esteticamente molto bella, tratta proprio le vicende degli anni ’40 della vita di Marx, arrivando proprio fino al 1848.

IL DONO DELLA SINTESI POLITICA

Introducendo il testo dobbiamo anzitutto ricordare che esso è opera di due autori che complessivamente mantengono una sorta di “cantiere aperto”. Tale è la filosofia di Marx (soprattutto) ed Engels: non c’è da parte di Marx la possibilità di chiudere tutti i temi, i propositi, le ricerche e i progetti che aveva in mente. Occorre ricordarlo per non prendere la sua opera come qualcosa di concluso e definitivo.

Il Manifesto rappresenta anzi una sorta di sintesi e “summa” delle opere fondamentali della formazione politica e filosofica dei due autori, una formazione avvenuta negli anni ’40. In questo decennio c’è ancora poca economia, che verrà approfondita nell’età matura successiva.

Il Manifesto viene scritto per un’organizzazione: la Lega dei Comunisti, un’organizzazione internazionale che ha il suo centro direttivo a Londra e ramificazioni in buona parte d’Europa (Germania, Francia, Svizzera, Belgio). Marx ed Engels hanno appena conquistato l’egemonia in questa organizzazione che solo pochi prima si chiamava ancora Lega dei Giusti. È grazie alla loro azione, svolta in due congressi che si susseguono nel ’47, che l’organizzazione cambia significativamente nome, con la conseguenza di dotardi di un nuovo manifesto programmatico. Il Manifesto è quindi un testo politico con un preciso intento di propaganda, che segna anche il superamento del modello della setta clandestina (che caratterizzava la Lega dei Giusti in uno stile carbonaro necessario nell’epoca della restaurazione) e che supera anche il modello da “catechismo” di un testo semi-dimenticato come i Principi del comunismo di Engels (1847), in cui l’autore formulava domande e risposte semplici con uno stile adatto a quello della setta. Perché bisogna superare questo modello? Viene detto nell’incipit del testo:

«Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. […] Qual è il partito d’opposizione che non sia stato tacciato di comunismo dai suoi avversari al governo? […] È ora che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che contrappongano alle favole sullo spettro del comunismo un manifesto del partito».

Quindi: dire chiaramente chi siamo e cosa vogliamo.

È da sottolineare comunque l’occasionalità, la temporalità del testo: un testo breve che rappresenta soprattutto la sintesi di una critica filosofico-politica, più che un’opera di approfondimento scientifico. Vi si trovano roboanti affermazioni, molte certezze e poche problematizzazioni, ed è normale che sia così, dato che si tratta di un documento politico per un Partito, non certo un documento dubitativo di tendenza scettica come si può trovare nelle accademie universitarie. Ogni Partito tende naturalmente a presentare, in maniera più o meno forte, la propria visione del mondo come l’unica legittima e la più adeguata. Attenzione quindi a trattarlo come un testo sacro indiscutibile. Si tratta di un testo che ha una sua storicità e in cui si trovano princìpi e affermazioni politiche e teoriche forti: alcune di queste (la maggior parte) rimangono valide tutt’oggi, e probabilmente lo resteranno per molti anni a venire. Altre invece vanno rilette criticamente come affermazioni di propaganda fatte per entusiasmare e infiammare gli animi, altre ancora vanno ricontestualizzate alla nostra epoca.

ASCESA E DECLINO DELLA FORTUNA COMMERCIALE

Ricordiamo un aneddoto importante: il Manifesto è stato realizzato da Marx in poco più di una settimana, riassemblando e riorganizzando materiali pregressi preparati assieme a Engels. Questo da un lato ci dimostra il genio e la grande capacità letteraria e stilistica di Marx, che ci ha lasciato un testo chiaro, nitido, comprensibile per le grandi masse; d’altra parte ci ricorda la necessità di un approccio prudente alla lettura verso quello che è diventato il testo più letto e famoso del nostro paradigma teorico di riferimento.

Un fatto importante su cui riflettere è che il Manifesto nel momento in cui esce non ottiene tutto quel successo che si potrebbe immaginare. Ha una certa circolazione, certo, ma la sconfitta dei moti del ’48 lo farà presto cadere nel dimenticatoio. Verrà riscoperto solo dopo la Comune di Parigi (1871). Sulla scia del grande successo ottenuto dal pamphlet di Marx dedicato all’evento (La guerra civile in Francia, in cui Marx fa prendere posizione alla Prima Internazionale a favore dei rivoluzionari) anche il Manifesto viene riscoperto in tutta Europa, con la stampa di 9 nuove edizioni in 6 lingue diverse nel giro di un paio d’anni. Il vero successo dell’opera arriverà però solo dopo la morte di Marx: tra il 1883 e il 1895, negli anni che ci portano alla nascita della II Internazionale (1889) in cui si forma il “marxismo” come paradigma teorico strutturato per opera di Engels e Kautsky, si contano ben 75 edizioni dell’opera che diventa una lettura obbligata di riferimento per le nuove leve delle socialdemocrazia internazionale. Questo ci insegna che il successo “commerciale” di un’opera politica dipende molto anche dall’impegno politico diretto dei suoi autori, oltre che dal fatto di essere riusciti a far emergere le proprie tesi nel campo variegato del movimento operaio anche nel corso di decenni caratterizzati da aspri conflitti interni tra le varie anime della “sinistra” dell’epoca e di cui si trova un riscontro nel ricchissimo capitolo 3 (Letteratura socialista e comunista).

LA CRITICA ALLE SINISTRE DELL’EPOCA

Partirei proprio da qui, per ricordare come l’intera filosofia marxista abbia impiegato decenni per avere la meglio sui concorrenti, e per farlo Marx ed Engels abbiano dovuto criticare ferocemente le altre tendenze socialiste, con discorsi che mantengono una grande attualità.

Il socialismo feudale si caratterizza infatti per il suo rifiuto della modernità: vi possiamo vedere le critiche idealiste fatte dal cristianesimo al sistema capitalistico, ma anche certi discorsi che parlano di decrescita, per non parlare di tutte quelle filosofie new age che predicano la fuga dal mondo odierno per riconnettere l’individuo alla natura.

Il socialismo piccolo-borghese si caratterizza per voler ripristinare i vecchi mezzi di produzione o di scambio. Ci ricorda coloro che di fronte al fallimento della dottrina economica del neoliberismo, trionfante nell’ultimo mezzo secolo, ora propongono il ritorno al keynesismo, dimenticando che il passaggio al neoliberismo è avvenuto proprio per far fronte alle contraddizioni in cui era caduto il keynesismo stesso negli anni ’70.

Il socialismo tedesco, detto anche socialismo “vero” è quella tendenza che proclama superata la lotta di classe e che lavora per “l’essere umano” in generale piuttosto che per il proletariato. È una corrente che tende ad essere estremista, non accettando mediazioni o compromessi e non riesce a cogliere la complessità della realtà.

Il socialismo conservatore o borghese è quella corrente che vorrebbe la borghesia senza il proletariato e che di fatto respinge l’ottica rivoluzionaria a favore di una metodologia riformista. Tendono costoro a vedere i borghesi come buoni e altruisti, quasi dei benefattori nei confronti della classe proletaria.

Infine il socialismo critico-utopistico, ossia principalmente i più degni precursori del socialismo scientifico: Saint-Simon, Owen, Fourier, i quali hanno grandi meriti, ma anche grandi limiti, a partire dal fatto che parlano spesso di esperimenti locali su scala ridotta di stili di vita socialisti (es. quelli che qualche decennio fa erano i centri sociali e che oggi sono diventati spesso “circoli culturali” assai poco culturali); altro errore è che fanno appello a tutta la società senza distinzioni, credendo nel “buon senso” dei padroni. Tendono quindi a cadere in un’ottica riformista e pacifista e ad essere contrari ad ogni tipo di rivoluzione. Finiscono quindi per cadere nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori.

È per contrapporsi a tutte queste tendenze che viene scritto il Manifesto del Partito Comunista, che intende trattare la questione del socialismo dal punto di vista scientifico.

UN NUOVO APPROCCIO: IL MATERIALISMO STORICO

»la storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe. Libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, mastro artigiano e garzone, in breve oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte latente a volte aperta: una lotta che è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta».

In queste poche righe non c’è un’invenzione ma la consacrazione di un nuovo modo di guardare alla storia e al passato, che ha influenzato in maniera decisiva gli studi storici e sociali, che prima concentravano l’attenzione solo sulle questioni politiche e militari mentre ora la storia economica e sociale si affacciano all’orizzonte, consentendoci di illuminare i conflitti di classe presenti nella storia.

Questioni solo del passato? No. Oggi, dopo l’avvento della rivoluzione industriale la divisione fondamentale, per quanto non l’unica, che si crea è tra borghesia e proletariato, divisione che sembra oggi anacronistica ai più. Engels precisa in una nota all’edizione del 1888 che «per borghesia si intende la classe dei capitalisti moderni, che sono proprietari dei mezzi di produzione sociali e impiegano lavoro salariato. Per proletariato s’intende la classe dei moderni lavoratori salariati, i quali, non possedendo alcun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la propria forza-lavoro per poter vivere». Praticamente i proletari sono tutti i lavoratori dipendenti, quindi una categoria molto vasta.

La questione rimane problematica per diversi temi che affronteremo alla fine.

CAPITALISMO È SCHIAVITÙ

Per ora ricordiamo che i comunisti sostengono la causa dei proletari, della classe operaia, più in generale della classe lavoratrice e di tutti gli “oppressi”, che costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità. Il comunismo si presenta in questo senso come un umanesimo che contesta lo sfruttamento e l’alienazione creati dal sistema capitalistico e propone di costruire un sistema diverso in grado di garantire una reale libertà che ci sottragga dalla schiavitù moderna che ci colpisce tutti. Partiamo da un dato: si potrebbe pensare che il capitalismo abbia portato benessere per tutti, o quanto meno per la stragrande maggioranza dell’umanità. In realtà il proletario è di fatto già di per sé un sub-umano, un essere umano di serie B. Gli operai,

«che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e proprio per questo sono esposti a tutte le vicissitudini della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Con la diffusione delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere autonomo e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Egli diventa un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale estremamente semplice, monotona, facilissima da imparare».

Prima considerazione: la forza-lavoro è una merce come tutte le altre e il suo prezzo è determinato secondo le stesse leggi delle altre merci (le leggi dell’offerta e della vendita). Sotto il dominio della grande industria e della libera concorrenza il prezzo è uguale ai costi di produzione; il costo di produzione della forza-lavoro consiste nella quantità di mezzi di sussistenza necessari per impedire l’estinzione della classe operaia: questo vuol dire che l’operaio mediamente riceve il minimo necessario per la sopravvivenza. A differenza dello schiavo (venduto una volta per sempre) oppure del servo della gleba (che ha il possesso di uno strumento di produzione e di un appezzamento di terra), il proletario non ha l’esistenza assicurata e si trova nel mezzo della concorrenza, ossia in una condizione di precarietà permanente e di competizione continua con gli altri operai che come lui necessitano di lavorare.

Seconda considerazione: Marx sta parlando qui della nuova schiavitù imposta dalla divisione del lavoro, che da un lato razionalizza la produzione incrementando la produttività economica, ma dall’altro aliena l’operaio, trasformandolo in una macchina, togliendogli così ogni piacere dell’attività lavorativa, la quale diventa pura costrizione, obbligo, un castigo da assolvere controvoglia e che sul lungo termine debilita sia il corpo che la mente. La varietà del lavoro è storicamente ciò che ha incrementato le attività neurologiche dell’essere umano. In questo senso il lavoro ci ha resi la specie sapiens sapiens, cioè intelligenti e liberi, ma si parla di un lavoro affrontato in maniera creativa e varia, alternando attività manuale e intellettuale. Nel sistema capitalistico non c’è però spazio per questa varietà e ne consegue per il dipendente salariato un’inevitabile degrado antropologico, psico-fisico. Il tema è stato trattato e approfondito da Marx soprattutto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e rimane uno dei più vivi e attuali: se pensiamo infatti che passiamo un terzo della nostra giornata, e quindi della nostra esistenza, a svolgere un lavoro che ci succhia tutta la nostra linfa vitale accompagnandoci nella tomba, capiamo bene l’assurdità di un sistema simile che ci toglie la prima cosa fondamentale e insostituibile di cui disponiamo: il dono della vita e del tempo che abbiamo da passare in questo mondo. Di qui la questione della libertà, che è il vero leitmotiv della filosofia marxista: difficilmente si può essere felici se non si è liberi, ma il proletario, costretto per un terzo della propria vita in un lavoro degradante, molto difficilmente è libero, e quindi è strutturalmente portato all’insoddisfazione e quindi all’infelicità.

In genere si presentano il comunismo e ogni forma di socialismo come società dittatoriali, collettiviste e illiberali. Questo quantomeno è il grande rimprovero che ci viene fatto dalla tradizione teorico-politica del liberalismo. In realtà solo una società socialista può garantire un’effettiva libertà a tutti i suoi membri, emancipandoli dalle preoccupazioni materiali che li asfissiano ogni giorno. Sandro Pertini, presidente della Repubblica all’inizio degli anni ’80, e non un comunista ma un socialista, ha sintetizzato questo punto in una frase semplice: «Non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà». Insomma: non c’è vero liberalismo fuori dal paradigma socialista. Perché allora i liberali sono ferocemente anticomunisti?

COMUNISMO È LIBERTÀ

L’unica risposta possibile sta nel fatto i liberali hanno un approccio esclusivista di libertà. I liberali mediamente sono profondamente individualisti, egoisti e mettono la propria libertà come prevalente e precedente a quella altrui. Domenico Losurdo ha mostrato come essi professino falsamente il mito per cui “la mia libertà finisce dove inizia la tua” ma in realtà fondano la loro libertà sulla sopraffazione degli altri. Per secoli hanno posto la libertà del padrone di avere schiavi (antichi o moderni che siano) come più importante e precedente rispetto alla libertà dell’uomo di non cadere in schiavitù. La grande novità del comunismo rispetto al liberalismo sta quindi nella sua inclusività: noi siamo inclusivi perché lottiamo contro ogni discriminazione, vogliamo la maggiore libertà possibile per tutta l’umanità, non solo per una sua parte scelta sulla base di un’appartenenza di genere, di classe, di razza, di nazionalità, e così via. Siamo quindi per l’uguaglianza di partenza di tutti e per questo siamo internazionalisti: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, si conclude così il testo, ricordando come l’appartenenza di classe preceda quella nazionale ad indicare come il nostro punto primario di riferimento sia sempre ragionare in un’ottica di totalità mondiale, di umanità dell’intero pianeta. Come riuscire ad ottenere questo obiettivo ideale? La principale risposta che è stata data da Marx ed Engels è la necessità dell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, che si traduce nella volontà di socializzare la produzione e tutte le principali attività economiche. Perché? Perché il capitalismo è un sistema irrazionale che produce più di quel che serve per dare ad ognuno il minimo indispensabile per avere una vita dignitosa. Centrale in questo senso è la constatazione che il capitalismo sia un sistema anarchico di produzione che degenera sistematicamente in crisi di sovrapproduzione:

«sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di vita della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che col loro periodico ripresentarsi sempre più minacciosamente mettono in discussione l’esistenza di tutta la società borghese. Durante le crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti finiti, ma persino delle forze produttive già create. Durante le crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un’assurdità: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generalizzata di annientamento sembrano averle sottratto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. […] Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Per un verso imponendo la distruzione di una grande quantità di forze produttive; per un altro verso conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente quelli già disponibili. Con quale mezzo dunque? Spianando la strada a crisi sempre più vaste e più violente e riducendo i mezzi per prevenirle».

Si comprende meglio allora perché occorra superare il capitalismo:

«voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società la proprietà privata è soppressa per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste proprio per il fatto che per i nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per la stragrande maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: è quello che vogliamo».

Marx ed Engels non precisano, in questo testo (ma lo faranno in altri) che sotto accusa non è quindi la proprietà in generale di qualsiasi tipo di bene, ma la proprietà dei mezzi di produzione, ossia di quei beni particolari che consentono di mettere in atto la valorizzazione del Capitale attraverso un rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Si parla insomma delle fabbriche, delle grandi aziende, ma anche delle banche e di quei settori in cui la valorizzazione del Capitale ha eliminato il passaggio intermedio della costruzione di una merce. Qui si apre un tema enorme: se sia possibile e se abbia senso un’ottica differente di non completa abolizione ma un’ottica che oggi viene chiamata di socialismo di mercato, che cioè mantenga uno spazio di libertà per le piccole imprese, cioè per un’economia privata (più o meno marginale) sostituendo alla pianificazione integrale dell’economia da parte dello Stato, (vd URSS) una macro-pianificazione che indirizzi l’economia pubblica e indirettamente anche quella privata. Il tema è particolarmente attuale perché al momento è ciò che sta accadendo in Cina.

Tornando al testo si può concludere dicendo che «il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi di prodotti sociali; toglie soltanto il potere di soggiogare il lavoro altrui mediante questa appropriazione». L’eliminazione della base gerarchica della produzione capitalistica consentirà anche di eliminare conseguentemente i riflessi gerarchici dei rapporti sociali presenti nel resto della società, con particolare riferimento ad una serie di sottocategorie sociali sottomesse a loro volta anche agli stessi operai: storicamente gli schiavi neri, le donne, gli immigrati, i minorenni, ecc. La lotta di classe quindi, che si esprime principalmente nel conflitto tra Capitale e Lavoro, cioè tra borghesia e proletariato, si esprime anche nel rapporto di genere all’interno della famiglia (il pater familias che sottomette la donna e i figli), così come anche a livello internazionale, dando luogo a scontri sempre più furibondi tra le borghesie nazionali e, sul lungo termine, borghesie transnazionali accomunate dall’appartenenza ad una determinata civiltà. È ciò che sta accadendo nell’ultimo secolo con la costruzione di una borghesia occidentale transnazionale formatasi nella lotta contro il socialismo reale sovietico e oggi contro i paesi del “terzo mondo” che non intendono sottomettersi (Cina, Russia).

BORGHESIA E GLOBALIZZAZIONE

Il tema in questione verrà approfondito meglio da Lenin (vd Imperialismo), ma già nel Manifesto troviamo una presentazione di massima della globalizzazione capitalistica: «la grande industria ha prodotto il mercato mondiale, già avviato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni su terraferma». In questa crescita generalizzata di tutta l’economia, «anche la borghesia si è sviluppata, ha accresciuto i suoi capitali e ha risospinto in secondo piano tutte le classi tramandate dal Medioevo». In grande sintesi: «la borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. Dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci».

«Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale».

Insomma:

«la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza».

Ciò conduce quindi automaticamente alla messa in crisi delle aziende medio-piccole, e ad una concentrazione crescente della produzione, e quindi del potere economico e della ricchezza, in poche mani:

«La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale».

MODERNITÀ LIQUIDA

Con il capitalismo entriamo quindi nel mondo della modernità, che potremmo definire “liquida”:

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. […] Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti».

Il regno della modernità è costituito quindi dalla precarietà assoluta e dall’avvento di quello che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato il mondo liquido, ossia una società in cui la precarietà è diventata una condizione esistenziale e strutturale, riguardante quindi non solo il lavoro e la condizione sociale, ma perfino la situazione relazionale, culturale ed emotiva. La difficoltà di avere relazioni fisse e stabili in famiglia… Tutto scorre rapidamente e non riusciamo a rimanere aggrappati a nulla di solido. Entrano in crisi tutte le religioni ma anche tutte le filosofie “forti”, tra cui la nostra. Ne consegue una crisi generalizzata della militanza ed il trionfo della filosofia del “post-moderno”, che proclama la fine delle ideologie, lasciando in piedi l’ultima ideologia nascosta: l’unica cosa che rimane sacra è la merce in sé, e l’ottica di consumare.

Marx ed Engels stanno riconoscendo il carattere rivoluzionario della borghesia. Lo fanno riconoscendo la razionalità del suo ruolo storico, se confrontato con la condizione prevedente, caratterizzata ancora dai rapporti sociali feudali. La borghesia apporta quindi un progresso materiale nella storia. Come spiega Alberto Burgio:

«benché comporti l’affermarsi del dominio borghese […] il passaggio alla modernità appare loro in prima istanza progressivo – e dunque da assecondare e favorire – nella misura in cui pone le condizioni del superamento di società statiche fondate sulla dipendenza personale e il patriarcato, il controllo religioso e l’analfabetismo, la confusione tra sfera pubblica e sfera privata e l’inerenza delle attività produttive ai rapporti di parentela o di comunità. Dopodiché è dentro il processo di sviluppo della modernità che essi ritengono si tratti di agire affinché le sue componenti progressive si radicalizzino e abbiano il sopravvento sugli aspetti arcaici in virtù dei quali ancora la forza (sotto diverse forme) opera come fattore decisivo».

Questo giudizio «non lascia spazio […] al rimpianto» di un passato che è comunque bene aver superato. Quindi

«il procedere della modernità […] ha rappresentato e rappresenta tuttavia, con i suoi orrori e le sue devastazioni, lo sviluppo dell’autonomia individuale, della mobilità sociale, della capacità riflessiva e della razionalità. Cioè di aspetti in sé progressivi, che tali rimangono a dispetto della violenza che ne connota le manifestazioni e benché nulla mai ne garantisca in partenza il buon uso».

LA VIOLENZA E IL NUOVO FASCISMO

Ne approfittiamo per agganciarci al tema della violenza. Constatato che il capitalismo e la borghesia si sono affermati con una violenza sociale (e oggi diremmo anche ambientale) devastante, anche i comunisti adottano un’ottica che potremmo definire pragmatica, per cui quel che conta non è il mezzo ma il fine, come mostra il finale del Manifesto:

«i comunisti disdegnano di nascondere le loro opinioni e intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista».

Ci si può chiedere se sia legittimo parlare di metodi violenti oggi, in tempi di democrazia liberale, in cui la gente può votare liberamente anche i partiti anti-sistema. In realtà la democrazia in cui viviamo è apparente e la borghesia dispone di mille trucchetti per manipolarla e controllarla, ma al di là di questo credo si debba rivalutare su tutti questi ragionamenti, compreso quello della “borghesia progressiva”, un tema emerso nell’opera dell’ultimo Pasolini: Pasolini ci ricordava che un conto è il progresso e un conto è lo sviluppo. Si può avere progresso senza sviluppo economico, e si può avere sviluppo economico senza progresso. Noi dobbiamo mirare al progresso, non allo sviluppo indiscriminato. Di fatto però già da mezzo secolo si è affermato, anche nell’ambito delle sinistre, un legame fortissimo tra i due aspetti. Pasolini già negli anni ’70 parla di una mutazione antropologica di tutta la società italiana, caduta ormai in preda di quello che chiama un nuovo fascismo: un regime particolare in cui per l’appunto l’unica bussola di riferimento è diventata per tutti il consumismo. Torneremo a parlare della questione nell’incontro dedicato al totalitarismo liberale. Per ora ci si limiti a prendere atto di questa nostra affermazione: la società in cui viviamo non è democratica, ma è una forma moderna e raffinata di dittatura della borghesia sul proletariato. Per quanto quindi sia preferibile avere un cambio di sistema per via pacifica, in linea di principio è sbagliato escludersi a priori l’ottica del ricorso alla violenza per rispondere all’offensiva violenta lanciata dalla borghesia nel momento in cui rischia di perdere il potere. L’abbiamo visto bene negli anni della strategia della tensione e non è l’unico riferimento che si potrebbe fare…

NESSO TRA PIANO NAZIONALE-INTERNAZIONALE

«Si è rimproverato inoltre ai comunisti di voler abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno». Poi però subito dopo: «Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi come nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia».

E in altra sede: «sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è all’inizio, nella sua forma, una lotta nazionale». Dopo il fallimento della rivoluzione “internazionale” del 1848, questo tema, che all’epoca per Marx non ha tutta questa grande importanza, verrà valorizzato ed approfondito enormemente da tutti i grandi maestri del socialismo. È un tema un po’ dimenticato dalle “sinistre”, ma ci ricordato negli ultimi anni Domenico Losurdo che non c’è mai stata una rivoluzione di carattere socialista che non si sia diffusa e radicata in pari tempo anche come messaggio di salvezza nazionale. Questione sociale e questione nazionale vanno di pari passo, in rapporto dialettico. Vorrei citare quanto scritto a suo tempo da Guido Liguori sulla questione, ricordando come sia Lenin che Gramsci abbiano insistito molto sul carattere nazionale dell’egemonia, polemizzando aspramente invece contro il cosmopolitismo (l’idea di essere cittadini del mondo senza avere una patria). Gramsci scrive: «lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è nazionale». Liguori spiega: «L’internazionalismo appare a Gramsci quasi un “dover essere” proiettato nel futuro, che oggi però non può prescindere dal momento nazionale, poiché l’egemonia è possibile solo in questo ambito». Questo tema è stato da noi (Partito Comunista) particolarmente sviluppato e la proposta politica di Italia Sovrana e Popolare, oggi diventata Democrazia Sovrana e Popolare, è un tentativo di concretizzare e attualizzare tale questione. C’è tutta un’elaborazione più approfondita qui appena abbozzata.

IDEOLOGIA ED EGEMONIA

Perché è così difficile per molti accogliere il messaggio comunista? Lo spiegano già Marx e Engels parlando della diffusione di ideologie borghesi tese a impedire di far emergere la verità nuda e cruda:

«evitate di polemizzare con noi giudicando l’abolizione della proprietà borghese a partire dalle vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe innalzata a legge, e il contenuto della vostra volontà è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe. Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate la concezione interessata in base alla quale trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici quali essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione».

Nel testo si riconosce già pienamente il fatto che l’educazione dei giovani è determinata dalla società borghese per mezzo della scuola, attraverso una forma di indottrinamento nascosto. Quindi «non sono i comunisti che inventano l’influenza della società sull’educazione; si limitano a cambiarne il carattere, strappano l’educazione all’influenza della classe dominante».

La grande intuizione di Marx ed Engels è però la seguente: «cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola anche la loro coscienza». Insomma: «la produzione spirituale si trasforma insieme a quella materiale» e soprattutto «le idee dominanti di un’epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante».

Oggi l’epigenetica, le conquiste in campo scientifico, confermano queste affermazioni, ma il tema necessita un approfondimento non ancora fatto in campo marxista.

Questi passaggi contengono una verità sacrosanta che contraddistingue una concezione materialista da una idealista: i comunisti sono fermamente convinti che la materia precede l’idea, così come il cervello precede il pensiero. Ciò vuol dire che un grande cambiamento sociale non potrà mai avvenire unicamente attraverso la diffusione di una buona cultura e istruzione. C’è una certa rigidità in queste affermazioni, che vanno intese in linea di massima e non in maniera deterministica. Se fossero la regola assoluta infatti il determinismo sarebbe totale e non sarebbe possibile nemmeno la più piccola resistenza culturale, e quindi la stessa opposizione teorico-politica di Marx ed Engels, che peraltro nascono da famiglie borghesi. È pur vero che i liberali, i borghesi, tendono ad enfatizzare, per ingenuità o per opportunismo, il libero arbitrio e la possibilità per gli individui di emancipare se stessi ed essere liberi ignorando completamente le costrizioni sociali, economiche e politiche a cui siamo sottoposti. I marxisti ricordano invece che la società svolge un ruolo determinante nel condizionare le masse, soprattutto quelle prive di giudizio critico e quindi in determinate situazioni la borghesia può giungere ad un controllo totalitario o semi-totalitario sulla popolazione, come è esattamente il caso della società in cui viviamo. Si pone così il problema, enorme, dell’egemonia, che però Marx ed Engels affrontano solo parzialmente, lasciando un buco che verrà riempito da Lenin e Gramsci. Rimane un dato chiaro nel testo: «la rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali».

LA QUESTIONE DELLO STATO

«Il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari comuni della classe borghese nel suo complesso».

«Il potere politico, nel senso vero e proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per opprimere un’altra».

Insomma lo Stato è sempre una forma di dittatura di una classe. Evidente il rifiuto della concezione hegeliana dello Stato etico e interclassista, incapace di travalicare gli interessi di classe per fare gli interessi di tutta la collettività. Torneremo in un successivo incontro su quanto uno Stato, un governo, possa essere relativamente autonomo rispetto alla classe economica dominante: questo è il tema del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Per ora possiamo constatare che Marx ed Engels pongano qui la questione della democrazia, non solo perché il contesto dell’epoca è quello di regimi assolutisti in cui perfino i paesi liberali mantengono limitazioni ai diritti politici (e quindi di voto) per censo, genere e razza. Il discorso della democrazia riguarda più in generale la consapevolezza che la struttura politica è uno strumento essenziale per modificare la struttura economica: «il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia». Si noti che non si tratta di una democrazia formale, ma si parla di democrazia quando il proletariato diventa classe dominante, il che vuol dire quindi la necessità di una rivoluzione politica propedeutica ad una rivoluzione sociale:

«il proletariato si servirà del suo potere politico per strappare alla borghesia a poco a poco tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo con interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione».

Lo scopo quindi della presa del potere, di essere diventati classe dominante, è quello di sopprimere i vecchi rapporti di produzione: «assieme a quei rapporti di produzione, esso sopprime anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe».

Non la si cita, ma si lascia già presagire quindi una concezione diversa di democrazia, molto diversa da quella liberale, che si limita a garantire il diritto della proprietà borghese. Più avanti Marx ed Engels non avranno remore a chiamare questa democrazia con il nome di “dittatura del proletariato”, ma sul tema non daranno indicazioni precise, rifiutandosi di dare “ricette per l’osteria dell’avvenire”.

Ne consegue anche un programma minimo in 10 punti per i «paesi più progrediti» che traccia la via da seguire e mantiene una certa attualità:

«1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2. Imposta fortemente progressiva. [chi ha di più paghi di più; ndr]

3. Abolizione del diritto di successione. [un aspetto completamente cancellato dal nostro paradigma teorico; ndr]

4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5. Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo. [in tempi in cui la sovranità monetaria è in mano alla BCE rimane validissimo… ndr]

6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato. [pensiamo alla privatizzazione e all’esternalizzazione dei servizi pubblici che va avanti da anni; ndr]

7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo. [notare che non si pone subito la rivendicazione della nazionalizzazione di tutte le attività, ma di incrementare la quantità di fabbriche nazionali, sottoposte cioè al controllo dello Stato operaio; ndr]

8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura. [il tema del lavorare tutti, lavorare meno… ndr]

9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo fra città e campagna. [e potremmo aggiungere anche la divisione tra lavoro manuale ed intellettuale… ndr]

10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via». [uno dei punti oggi che più è stato accolto, anche se continuano ad esserci spese non indifferenti per le famiglie degli studenti, ndr]

IL PARTITO

Spesso si dà per scontato il fatto che quando si parla di “partito” si intenda il significato odierno del termine. Sia Rossana Rossanda che Jacques Texier hanno però sottolineato l’ambiguità del concetto di “partito”, sforzandosi di darne l’interpretazione di “movimento”. È chiara la polemica verso la forma-partito tipica dell’operato di una certa sinistra individualista, indisciplinata e movimentista che con ragionamenti fumosi del genere ha favorito l’indebolimento non solo dei partiti comunisti storicamente esistiti, ma anche del movimento comunista nel suo complesso. Non esiste sul lungo termine nessun movimento comunista senza un partito comunista, ossia senza l’avanguardia politica rivoluzionaria del proletariato. È pur vero però che nell’opera non si precisa la questione di come vada organizzato il Partito, né se ne occuperanno molto Marx ed Engels nel corso della loro attività. A colmare le lacune sarà indispensabile il Che fare? di Lenin.

IL RAPPORTO TRA PROLETARI E COMUNISTI

Fino a qui la presentazione è stata abbastanza scolastica. Cerchiamo di affrontare ora i problemi principali. Probabilmente il tema del Partito è poco trattato perché all’epoca lo sfruttamento è realtà ben visibile ed evidente. Marx ed Engels scrivono che la borghesia

«non ha lasciato tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. […] ha posto come unica libertà quella di un commercio privo di scrupoli. In una parola, in luogo dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha introdotto lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido».

Oggi è ancora così? Nella nostra società occidentale la risposta è ambivalente: troviamo delle casistiche che rispecchiano ancora questa realtà, ma sono momenti sempre meno diffusi, tant’è che è diventato assai problematico il rapporto tra proletari e comunisti. Nel 1848 la questione è diversa: essendo lo sfruttamento ben visibile, non c’è difficoltà nella presa di coscienza di classe. Un operaio ha coscienza di essere parte della classe operaia, anche nel modo di vestire (era classe in sè) e di fronte alle difficoltà della vita proletaria sembra tendere quasi naturalmente alla lotta economica (diventando classe per sè) creando sul lungo termine una comunità2 che nel corso del tempo acquista una crescente consapevolezza politica. La lotta economica diventa così lotta politica e l’azione del Partito diventa necessaria in questo quadro per fornire l’adeguato coordinamento e direzione delle lotte. Ne consegue il carattere rivoluzionario del proletariato:

«di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato invece è il suo prodotto più autentico. I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il coltivatore diretto, combattono tutti la borghesia per preservare dal tramonto la loro esistenza di ceti medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di riportare indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma quelli futuri, abbandonano il proprio punto di vista per adottare quello del proletariato».

Oggi vediamo bene che la situazione è molto diversa.

LE PREVISIONI SBAGLIATE: PAUPERIZZAZIONE E CROLLISMO

Perché oggi i ragionamenti di Marx ed Engels ci sembrano perdere mordente? Essi partono da un presupposto vero all’epoca ma apparentemente molto meno oggi:

«ogni società finora esistita si è basata, come abbiamo già visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna assicurarle almeno quelle condizioni che le permettano di condurre la sua misera vita servile. […] L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Di qui appare chiaramente che la borghesia non è più in grado di restare la classe dominante della società e di imporre a quest’ultima le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è in grado di dominare, perché non è in grado di garantire la vita al proprio schiavo neppure entro i limiti della sua schiavitù, perché è costretta a farlo sprofondare in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché essere nutrita da lui. La società non può più vivere sotto il suo dominio; cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società. Condizione essenziale dell’esistenza e del dominio della classe borghese è l’accumulazione della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l’accrescimento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorreza, la loro unione rivoluzionaria mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie quindi da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce i prodotti e se ne appropria. Essa produce anzitutto i propri becchini. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili».

Ci sono molteplici errori di prospettiva in questa profezia, a partire dal fatto che la tesi del “crollismo” non si è mai realizzata: non solo il capitalismo non è mai crollato ma è uscito rafforzato da ogni crisi economica. Si può dire che il capitalismo utilizza le crisi per rafforzarsi. La borghesia inoltre è una classe molto intelligente che si è mostrata capacissima, sulla base delle lezioni storiche ricevute, di addomesticare il proletariato, alternando bastone e carota, lavorando scientificamente al suo controllo militaresco oppure imparando a moderare la propria ingordigia (passando dalla ricerca del plusvalore assoluto a quello relativo, cioè ad uno sfruttamento più contenuto, meno visibile e più accettabile per tutti) e usando svariate tecniche moderne di egemonia. In generale potremmo semplificare molto dicendo che oggi in Occidente il messaggio che «i proletari non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare» è valido solo per una minoranza, costituita in particolar modo dal sottoproletariato più povero, su cui peraltro Marx ed Engels non danno un giudizio lusinghiero. Rimane vero che il proletariato avrebbe tutto da guadagnare da una rivoluzione socialista, ma è altrettanto vero che la gran parte di esso non vive in povertà assoluta, e anzi ha assorbito pienamente l’ideologia consumistica, acquisendo una quantità tale di merci e di beni materiali da perdere completamente coscienza di classe. Anche in considerazione della diffusione della terziarizzazione delle economie caratteristica dei paesi più sviluppati. I precari, i disoccupati, i commessi, le partite IVA, i lavoratori dipendenti, in una certa misura perfino i piccoli commercianti e i piccoli proprietari non si sentono proletari, eppure se torniamo alla definizione data da Engels del proletariato essi rientrerebbero benissimo in quella classe della società che «trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi». Oggi in Italia la maggioranza del paese è in questa condizione ma non c’è niente da fare: il proletario medio oggi si sente, si crede, si percepisce un borghese, magari piccolo, ma pur sempre un borghese, e aspira non a cancellare la figura del padrone, ma a diventare egli stesso il padrone. In questo senso c’è stato uno sfondamento ideologico, una vittoria del pensiero e dello stile di vita borghese quasi completi. Per quali ragioni è accaduto tutto ciò?

PERCHÉ NON SIAMO PIÙ PROLETARI

Perché quindi il grosso dei proletari non è più comunista? Ci sono varie ragioni:

1) Fino agli anni ’70 il discorso marxista era ancora egemone in Occidente e la classe operaia era in crescita politica ed economica. La risposta della borghesia è stata la GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERISTA, le DELOCALIZZAZIONI delle fabbriche, la DEINDUSTRIALIZZAZIONE del paese, la FINANZIARIZZAZIONE E la TERZIARIZZAZIONE dell’ECONOMIA. Ciò ha comportato il SUPERAMENTO del MODELLO FORDISTA-TAYLORISTA strutturato sulle grandi fabbriche con grandi masse di operaie. Tutto questo però ha riguardato l’Occidente. Tutte le contraddizioni che c’erano in Occidente sono state spostate però nel “terzo mondo”.

2) Le previsioni marxiste sembrano quindi smentite in Occidente ma non a livello globale, dove il numero di operai e salariati non è mai stato tanto alto. I dati mondiali delle diseguaglianze e la concentrazione delle ricchezze parlano chiaro: basti ricordare che 8 persone hanno la stessa ricchezza di 4 miliardi di persone oggi nel mondo. La pauperizzazione è un fenomeno tuttora in corso nel mondo, sia in termini assoluti che relativi (chiaramente a seconda dei paesi e delle casistiche). La crisi attuale (la guerra) è in ultima istanza la manifestazione della crisi dell’imperialismo occidentale a fronte invece dell’ascesa del Terzo mondo, in cui è localizzato la gran parte del proletariato mondiale.

3) Fattore materiale: l’Italia e l’Europa sono un pezzo dell’impero occidentale: un impero borghese. Il sistema attuale in fin dei conti si fonda sullo sfruttamento del resto del mondo, e quindi in una certa misura conviene anche ai proletari occidentali grazie a due fenomeni che ha messo in atto la borghesia occidentale imparando dagli inglesi e poi dagli statunitensi: il social-imperialismo e l’aristocrazia operaia. L’imperialismo è diventato “sociale”: ha saputo coinvolgere, cooptare, dividere la classe operaia facendone emergere una parte crescente tra le proprie fila, formando così l’aristocrazia operaia, una parte privilegiata e sempre più ampia del proletariato. Il welfare state (vd reddito di cittadinanza) e l’alienazione tecnologica crescente sono tutti fattori che spiegano come il proletario anche in Occidente oggi creda di stare abbastanza bene. Sono pochi, relativamente al complesso della popolazione, quelli fanno la fila alla caritas per mangiare.

4) Fattore ideale: noi in Occidente siamo figli della sconfitta storica del comunismo sovietico nel 1989-91 e siamo oggi vittime di un regime che, complice la devastazione del movimento comunista (in Italia vd la Bolognina), mente sistematicamente sul comunismo storico (nonostante le smentite di una serie di storici non conosciute perché non hanno il privilegio di andare in televisione), spadroneggiando su un popolo dominato culturalmente prima ancora che politicamente. Perfino le opposizioni rimangono per lo più borghesi, alcune in quanto costruzioni dirette del nemico, altre per modo di pensare e concepire se stesse. Il fatto che Marx ed Engels abbiano fatto alcuni errori o che siano stati interpretati in maniera inadeguata e distorta ha contribuito a convincere anche le sinistre occidentali più “oneste” a gettare via il bambino con l’acqua sporca. Di qui la condanna del marxismo…

CONCLUSIONI

Oggi i comunisti sono ridotti all’osso ma il contesto generale di crisi, nonostante la sua pericolosità, consente di smuovere qualche coscienza. C’è quindi una possibilità di ripresa, ma solo se si riesce a risolvere i problemi presentati sopra. Non si può più pensare di agire soltanto rivolgendosi al proletariato ma occorre costruire un popolo rivoluzionario nuovo raggruppando anzitutto i più consapevoli politicamente di vivere in un moderno fascismo, riconoscendone l’essenza del regime imperialista e in un ultima istanza del capitalismo stesso. Non basta la consapevolezza teorica. Non basta sapere di vivere nel fascismo. Costanzo Preve diceva: “molti lo sanno. Tutti se ne fregano”. Ci vuole quindi anche la volontà politica di abbattere questo sistema. Il Partito Comunista è il partito avanguardia della classe proletaria ma è fondamentale andare oltre. Già da anni abbiamo aperto ad alleanze sociali con quei “ceti medi” che nella gran parte dei casi sono i moderni operai e schiavi del sistema capitalistico.

Ultimo problema: come conciliare politiche di alleanze sociali e politiche (nell’ottica di un programma minimo) con la necessità di rispettare il seguente punto: «il partito comunista non cessa però, neanche per un istante, di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara possibile dell’ostilità e dell’antagonismo fra borghesia e proletariato» (in vista evidentemente del programma massimo: il socialismo)? Non è un problema oggi all’orizzonte ma lo scoglio da superare in questo senso è il fatto che le alleanze sociali sono problematiche proprio perché noi comunisti siamo in antitesi strutturale con i borghesi in un contesto in cui la maggior parte del popolo si percepisce borghese. Di qui la necessità di calibrare il linguaggio che usiamo per la propaganda, ma la necessità anche di mettere al centro il tema della formazione, che è il senso di questo incontro e di questa scuola.

Alessandro Pascale, responsabile nazionale formazione del Partito Comunista

1Riguardo alle citazioni del testo di Marx ed Engels si è fatto riferimento soprattutto sull’edizione Laterza 1999 curata e tradotta da Domenico Losurdo, in misura minore sull’edizione disponibile gratuitamente sul sito Marxists.org. Le restanti citazioni presenti sono tratte dall’opera miscellanea R. Rossanda (a cura di), Il Manifesto del Partito Comunista 150 anni dopo, Manifestolibri, Roma 2000.

2«La crescente, reciproca concorrenza dei borghesi e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l’incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precaria la loro esistenza nel suo complesso; i conflitti fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di conflitti fra due classi. È così che gli operai cominciano a formare coalizioni contro i borghesi e si uniscono per difendere il loro salario. Fondano persino associazioni permanenti, al fine di accumulare viveri in vista di eventuali sollevazioni. Qua e là la lotta si trasforma in sommossa. Di tanto in tanto gl ioperai vincono, ma solo temporaneamente. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma la loro unione».

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