INTRODUZIONE AL MARXISMO-LENINISMO

Mar 28, 2023 | articolo

IL TESTO CHE SEGUE È LA RELAZIONE SCRITTA DEL VIDEO ED È SCARICABILE IN FORMATO PDF QUI

Il testo che segue è la relazione tenuta dal sottoscritto Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del Partito Comunista, nell’ambito della scuola popolare di formazione politica Antonio Gramsci. La presentazione è stata fatta a Milano il 10 marzo 2023 presso i locali della cooperativa La Liberazione di Milano. È disponibile la registrazione video caricata sulla pagina youtube del Partito Comunista Milano (@pcmilano).1

CHE COS’È IL MARXISMO-LENINISMO?

Con tale espressione si intende il corpus dell’elaborazione teorica e della prassi politica di Marx, Engels e Lenin. Quest’ultimo è stato il primo marxista a far trionfare una rivoluzione proletaria creando le premesse della costruzione di uno Stato socialista. Il suo contributo innovatore è stato così giudicato di pari importanza a quello dei maestri fondatori del socialismo scientifico, e oggi siamo qui per esporne i princípi teorici e pratici. Partiamo da un dato storico: la consacrazione di Lenin inizia dopo la sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1924. Il gruppo dirigente bolscevico inizia subito a parlare di marxismo-leninismo, costruendo un culto della personalità, con tanto di imbalsamazione del grande leader, il cui corpo viene esposto da quel momento in poi sotto il Cremlino, dove il popolo continua tuttora a rendergli omaggio. Chi vede nel marxismo-leninismo una nuova religione non ha tutti i torti, perché questa è stata spesso la prassi sbagliata con cui è stato inteso il corpus dottrinale a cui ha fatto riferimento il movimento comunista internazionale. Sono stati molti i dirigenti e i semplici simpatizzanti che hanno ripetuto come un mantra le parole di Marx, Engels e Lenin, usandole dogmaticamente per interpretare la propria epoca e giustificare le proprie azioni: un errore clamoroso che mostra una profonda ignoranza della base filosofica del marxismo-leninismo, il materialismo dialettico e storico. La ragione per cui Lenin sia riuscito a fare una rivoluzione, mentre molti altri grandi leader marxisti no, sta proprio nell’aver fatto proprio il metodo filosofico del marxismo, base della prassi politica, a cui ha affiancato un enorme lavoro di studio empirico della realtà: «l’analisi concreta della situazione concreta è l’anima viva, l’essenza del marxismo». Sbaglia chi attribuisce queste distorsioni già a Stalin, il quale è stato il più adeguato interprete della lezione leninista, guidando con successo il Partito Comunista dell’Unione Sovietica per 30 anni. È vero che Stalin ha una grande responsabilità politica, ma assieme all’intero gruppo dirigente, nella costruzione del culto della personalità di Lenin e del marxismo-leninismo, seguendo l’idea di realizzare una sorta di religione laica e civile per le grandi masse contadine e analfabete, profondamente arretrate culturalmente e abituate dal cristianesimo ortodosso al culto delle icone. Tutto ciò serviva a dare uno sbocco alternativo ai pregiudizi religiosi ereditati da una Chiesa screditata per l’alleanza con lo zarismo. Questa operazione viene accompagnata da una campagna di alfabetizzazione di massa e dallo studio della sua opera, che diventa un punto di riferimento non solo per le migliaia di nuovi membri del Partito, ma anche per le masse popolari. Lenin diventa così un martire della causa degli oppressi di tutto il mondo, oltre che un simbolo necessario per rafforzare una comunità ancora molto fragile alla metà degli anni ’20. Lasciamo spiegare a Stalin cosa sia il leninismo in una delle sue presentazioni più esaustive (Principi del leninismo, 1924):

«Dunque, che cosa è il leninismo? Gli uni dicono che il leninismo è l’applicazione del marxismo alle condizioni originali della situazione russa. In questa definizione vi è una parte di verità, ma essa è ben lontana dal contenere tutta la verità. Lenin ha effettivamente applicato il marxismo alla situazione russa e l’ha applicato in modo magistrale. Ma se il leninismo non fosse che l’applicazione del marxismo alla situazione originale della Russia, sarebbe un fenomeno puramente nazionale e soltanto nazionale, puramente russo e soltanto russo. Invece noi sappiamo che il leninismo è un fenomeno internazionale, che ha le sue radici in tutta l’evoluzione internazionale e non soltanto un fenomeno russo. Ecco perché penso che questa definizione pecca di unilateralità».

Confrontiamo questa affermazione con quanto spiegato da Luciano Gruppi su ciò che guida l’azione politica di Lenin: «cogliere l’unità del molteplice, il concreto, definire di volta in volta, a seconda di come il concreto si specifica, la linea dell’azione politica, ma senza cadere nel relativismo opportunista, senza dimenticare l’analisi più generale della formazione economico-sociale specifica che ci sta di fronte (il capitalismo in Russia) e nemmeno i caratteri di questa formazione economico-sociale nella sua generalità (il capitalismo, la funzione del proletariato)».2 Lenin quindi non ha solo adattato il marxismo al contesto russo, ma la sua analisi ha valore più generale. Stalin:

«Altri dicono che il leninismo è la rinascita degli elementi rivoluzionari del marxismo del decennio 1840-1850, per distinguerlo dal marxismo degli anni successivi, divenuto, a loro avviso, moderato, non più rivoluzionario. A prescindere dalla sciocca e banale divisione della dottrina di Marx in due parti, una rivoluzionaria e una moderata, bisogna riconoscere che anche questa definizione, del tutto insufficiente e insoddisfacente, contiene una parte di verità. Questa parte di verità consiste nel fatto che Lenin ha effettivamente risuscitato il contenuto rivoluzionario del marxismo, ch’era stato sotterrato dagli opportunisti della II Internazionale. Ma questa non è che una parte della verità. La verità intera è che il leninismo non solo ha suscitato il marxismo, ma ha fatto anche un passo avanti, sviluppando ulteriormente il marxismo nelle nuove condizioni del capitalismo e della lotta di classe del proletariato. Che cosa è dunque, in ultima analisi, il leninismo? Il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. Più esattamente: il leninismo è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria e la tattica del proletariato in particolare. […] Non bisogna dimenticare che fra Marx ed Engels da una parte e Lenin dall’altra, si stende un intero periodo di dominio incontrastato dell’opportunismo della II Internazionale. La lotta spietata contro l’opportunismo non poteva non essere uno dei compiti più importanti del leninismo».

Il leninismo è quindi una dottrina che da un lato ripristina alcuni princìpi originari perduti, dall’altro riesce ad aggiornare la lezione del marxismo ad una fase storica nuova, caratterizzata da un cambiamento complessivo del capitalismo occidentale. Il leninismo non si è limitato a fornire una corretta descrizione di questi processi, ma ha colmato i buchi del marxismo contrastando attivamente altre interpretazioni inadeguate.

LA DISTANZA TRA MARXISMO “OCCIDENTALE” E “ORIENTALE”

Il marxismo-leninismo è tutt’oggi la dottrina di riferimento dei paesi socialisti esistenti nel mondo (Cina compresa), nonché della gran parte dei partiti comunisti esistenti. Tutto ciò non vale per l’Europa, dove invece si è assistito nell’ultimo mezzo secolo all’abbandono diffuso del marxismo-leninismo. Va imputata a questa frattura, che si è creata tra il marxismo “occidentale” e quello “orientale” dopo la destalinizzazione avviata nel 1956, la grande arretratezza politica in cui si trova da noi il movimento comunista. Il revisionismo ha diviso i comunisti. Alcuni continuano a professarsi leninisti ma rigettano la lezione del più grande dei leninisti: Stalin. Altri, notando la continuità di fondo tra Stalin e Lenin, hanno abbandonato Lenin per tornare a Marx ed Engels. Alcuni hanno mantenuto come punto di riferimento solo Marx: ne è un esempio pratico lo Statuto del PRC; il tentativo fatto dal sottoscritto al congresso del 2017 di inserirvi anche Engels e Lenin ha trovato l’opposizione della dirigenza e della maggioranza dei delegati. Il cavallo di troia con cui è stato giustificato questo slittamento ideologico è stato un argomento giusto in linea di principio, e cioé che in ogni paese bisogna favorire l’elaborazione di una propria via nazionale al socialismo. Attraverso questa strada, rilanciata in Italia da Togliatti nel 1956, si è giunti però già sotto Berlinguer alla liquidazione sostanziale del marxismo-leninismo.

Si pone quindi un grosso problema politico: tenere fermi i princìpi del marxismo-leninismo adattandolo all’epoca in cui viviamo. Il principale elemento di debolezza che hanno oggi anche coloro che si richiamano a tale teoria è che tendono a riproporne le formule di un secolo fa. Il rischio concreto è diventare quelli che Stalin chiamava i «talmudici del marxismo», enfatizzando analisi e modelli che in alcuni punti sono invecchiati male. L’avanzamento teorico è stato portato avanti in diversa misura in altri paesi e da altri partiti. In Occidente siamo invece molto arretrati: invece di aggiornare il leninismo si è preferito abbandonarlo per un eclettismo inconcludente.

IL NESSO STRUTTURALE TRA LOTTA POLITICA, ECONOMICA, CULTURALE

Cominciamo a presentare i fondamentali del marxismo-leninismo, poi ragioneremo sui punti problematici. Partiamo dal triplice concetto di lotta di classe: lotta politica, economica, culturale. Abbiamo già trattato la lotta culturale, per cui ricordiamo solo un paio di massime di Lenin. La prima spiega come ogni discorso abbia sempre una natura di classe: «Fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni». (da Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, marzo 1913) Di conseguenza non esistono ideologie indipendenti, ma solo un rigido dualismo tra ideologia borghese e ideologia socialista:

«Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, […] la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una “terza” ideologia e, d’altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Perciò ogni diminuzione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese». (dal Che Fare?)

Il termine ideologia muta rispetto al significato negativo di falsa coscienza datone da Marx ed Engels in opere che Lenin non poteva aver letto perché inedite. Lenin usa il termine in modo generico per indicare un sistema di idee, assumendo addirittura un significato positivo: pur essendo infatti naturalmente condizionata dalla sua base di classe, l’ideologia del marxismo per Lenin supera la “falsa coscienza” in quanto è consapevole del rapporto tra essere sociale e coscienza e, nella consapevolezza di tale rapporto e del proprio condizionamento di classe, realizza un grado di obiettività superiore. Per Luciano Gruppi, uno dei più importanti responsabili della formazione del PCI nel periodo di Berlinguer, ciò porta ad un «certo impoverimento del complesso rapporto marxiano tra scienza ed ideologia, che può diminuire la vigilanza critica precisamente contro l’ideologia, la falsa coscienza».3

Concentriamoci sulle altre due tipologie di lotta: politica ed economica, la cui stretta unità d’azione è uno dei punti cardine del pensiero di Marx, tanto da porle a fondamento dell’indirizzo inaugurale e degli statuti provvisori della I Internazionale (1864):

«l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa […] la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica […] di conseguenza l’emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico».

Discorso che va collegato al settimo paragrafo degli Statuti:

«nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti. Questa organizzazione del proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione sociale e il raggiungimento del suo fine ultimo: la soppressione delle classi. […] Siccome i magnati della terra e del capitale utilizzano sempre i loro privilegi politici per difendere e perpetuare i loro monopoli economici e per asservire il lavoro, così la conquista del potere politico è diventata il grande dovere del proletariato».4

L’INEVITABILITÀ DELLE LOTTE CON LE “SINISTRE”

Si tratta di punti apparentemente molto semplici e per noi scontati, ma per affermarli Marx, Engels e i loro seguaci hanno dovuto lottare duramente contro le “sinistre” dell’epoca. In Germania lottano contro i seguaci di Lassalle che cercava di ottenere miglioramenti sociali per gli operai venendo a patti con Bismarck; in Inghilterra contro i liberali sindacalisti, contrari all’impegno politico; in Italia contro i seguaci di Mazzini, che mantenevano un’ottica repubblicana democratica ma interclassista. In Francia contro i seguaci di Proudhon, più interessati alla lotta economica e allo sviluppo del tema della cooperazione pacifica rispetto alla lotta politica. Prosecutore di questa tendenza è Bakunin, fondatore dell’anarchismo, secondo cui la radice del problema non è la struttura capitalistica ma lo Stato. Distrutto quest’ultimo, sarebbe scomparso anche lo sfruttamento di classe. Di qui la negazione della necessità dell’organizzazione di classe del proletariato, della sua partecipazione alla lotta politica, della sua capacità di guidare la lotta per l’abbattimento del capitalismo e la negazione della dittatura del proletariato. Ponendo la libertà individuale al primo posto, i bakuniani indeboliscono la disciplina collettiva, e quindi l’efficacia organizzativa e politica dell’Internazionale. Lenin scriverà nel 1901 (in Anarchia e Socialismo) che «il movimento anarchico […] non ha dato nulla all’infuori di frasi generali contro lo sfruttamento […] in voga da oltre duemila anni», diventando una sorta di «individualismo borghese alla rovescia» per la sua «difesa della piccola proprietà e della piccola azienda agricola». Soprattutto non ha offerto nessuno sviluppo analitico al movimento, non riuscendo a comprendere lo struttura sociale o le funzioni dell’organizzazione e dell’educazione. La sua diffusione è «un prodotto della disperazione» e incarna la «mentalità dell’intellettuale e dello straccione usciti di carreggiata e non del proletario». In conclusione: «Nessuna dottrina, nessuna scienza rivoluzionaria, nessuna teoria. Frazionamento del movimento operaio» e conseguente «subordinazione della classe operaia alla politica borghese sotto forma di negazione della politica».

L’epopea della Comune di Parigi, primo esperimento di una società socialista, stroncato dalla reazione borghese dopo neanche tre mesi, spinge Marx ad affermare nel pamphlet La guerra civile in Francia (1871) che «la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini». La classe operaia deve costruire un nuovo tipo di potere politico: si inizia a ragionare sulla dittatura del proletariato, un regime necessario per eliminare i residui del vecchio ordine borghese e preparare l’avvento di una nuova società emancipata.

La repressione poliziesca e la prosecuzione dei contrasti tra Marx e Bakunin pongono fine all’esperienza della I Internazionale in pochi anni. L’anarchismo ha il suo periodo di gloria per un quindicennio, fino a quando i suoi continui fallimenti politici e le tendenze socio-economiche convincono la gran parte del movimento operaio ad abbracciare il marxismo elaborato da Engels e Kautsky. Di qui la nascita della II Internazionale (1889), caratterizzata ormai da una certa omogeneità culturale marxista. È questo il periodo in cui Lenin inizia la propria attività politica in Russia, lottando duramente contro le varie tendenze politiche arretrate del movimento operaio e contadino (ad esempio quelle populiste, riconducibili in una certa misura all’anarchismo, condito però dal rifiuto dell’industrializzazione), ma anche a correnti interne che si creano in seno al movimento marxista. Engels muore nel 1895 e la sua morte eleva alla leadership dell’Internazionale il solo Kautsky, che ha il difetto di non aver mai compreso bene la dialettica, rimanendo sempre influenzato dai paradigmi del positivismo e dell’evoluzionismo darwiniano, applicandone involontariamente alcune categorie deterministiche al marxismo stesso. Ne consegue che la gran parte dei gruppi dirigenti socialisti di questo periodo tendono a seguire queste deformazioni ideologiche, che unite ad una crescente burocratizzazione dei partiti, conducono ad un certo attendismo nei confronti dell’attesa del crollo del capitalismo, e in alcuni nell’idea che si debbano rivedere le stesse idee di Marx. Ne è il massimo esempio il revisionismo di Bernstein, che dal 1899 propone un socialismo movimentista, riformista e parlamentarista, con la conseguente rinuncia della rivoluzione e il rifiuto della dittatura del proletariato.

Lenin rimane immune a tutto ciò perché, pur conoscendo le opere divulgative di Kautsky, a differenza dei più non ha appreso il marxismo da queste, ma direttamente dai testi di Marx ed Engels. Questo spiega la sua capacità di essere un leader, mantenendo sempre piena capacità e autonomia di giudizio critico nei confronti di chiunque, anche dei nomi più blasonati. A partire da questi presupposti Lenin ha passato 30 anni a rafforzare la tendenza marxista rivoluzionaria incarnata dal bolscevismo, costruendo un gruppo dirigente che si è forgiato contro le varie tendenze politiche arretrate: oltre al populismo e all’anarchismo, l’economicismo e il sindacalismo apartitico, il parlamentarismo il suo opposto (l’otzovismo e poi il bordighismo). La lotta centrale è contro il revisionismo, incarnato in Russia dalla corrente menscevica, e rientra nella lotta generale contro ogni tendenza deterministica capace di sviluppare razionalmente solo una parte dell’analisi trascurandone l’altra e giungendo così a conclusioni politiche inadeguate. In questo percorso Lenin è quasi sempre in conflitto con Trockij, che porta avanti una linea “centrista” e conciliatrice tra menscevichi e bolscevichi, facendo il “battitore libero”. Stalin invece aderisce da subito al bolscevismo, riconoscendo il primato analitico di Lenin che diventa il suo punto di riferimento da cui imparare. Tutto questo ci insegna che le divisioni a sinistra ci sono sempre state, e senza di esse non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione in Russia nel 1917, visto il ruolo decisivo giocatovi dai bolscevichi di Lenin. Quest’ultimo era ben consapevole dell’assurdità di parlare dell’unità della sinistra: «L’unità è una grande cosa e una grande parola d’ordine! Ma la causa operaia ha bisogno dell’unità dei marxisti, e non dell’unità tra i marxisti e i nemici e travisatori del marxismo. E a chiunque parli di unità dobbiamo chiedere: Unità con chi? Con i liquidatori? In tal caso non abbiamo niente in comune». (da Unità, 12 aprile 1914)

LA SPIEGAZIONE DI STALIN

Riflettendo sulla storia del partito bolscevico, a cui dedicherà un importante libro (Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, 1938), Stalin nel 1926 ritiene ineluttabili le lotte politiche interne che riguardino questioni di principio: «la storia del nostro partito è la storia della lotta delle contraddizioni all’interno di questo partito, la storia del superamento di queste contraddizioni e del graduale consolidamento del nostro partito attraverso questo superamento. […] Non vi è e non vi può essere una linea “intermedia” nei problemi che hanno un carattere di principio». Stalin ricorda il primo periodo di Lenin, quello del giornale Iskra e della scissione avvenuta al II Congresso del Partito (1903) tra menscevichi e bolscevichi:

«Lenin allora rimase solo. Se sapeste quanto si gridò e si pianse allora sugli “insostituibili” che avevano abbandonato Lenin! Tuttavia la prassi della lotta e la storia del partito hanno dimostrato che questo dissenso aveva una base di principio, era una fase che si doveva attraversare perché nascesse e si sviluppasse un partito veramente rivoluzionario, veramente marxista. La prassi della lotta dimostrò allora che quel che importa, in primo luogo, non è la quantità, ma la qualità; e, in secondo luogo, non è l’unità formale, ma l’unità poggiante su una base di principio».

Per Stalin «il superamento delle divergenze all’interno del partito mediante la lotta è la legge di sviluppo […] di tutti i partiti che hanno una certa consistenza, si tratti del partito proletario dell’URSS o dei partiti proletari dell’Occidente». Da dove vengono queste contraddizioni e divergenze? Da due cause:

1) «In primo luogo, la pressione della borghesia e dell’ideologia borghese sul proletariato e sul suo partito nelle condizioni della lotta delle classi, pressione alla quale non di rado cedono gli strati più instabili del proletariato, e quindi anche gli strati più instabili del partito proletario».

2) «In secondo luogo, l’eterogeneità della classe operaia e l’esistenza di vari strati in seno alla classe operaia. Penso che il proletariato, come classe, potrebbe essere suddiviso in tre strati.

Uno strato è costituito dalla massa fondamentale del proletariato, dal suo nucleo, dalla sua parte permanente, la massa dei proletari “purosangue” che già da tempo ha rotto i legami con la classe dei capitalisti. Questo strato del proletariato costituisce il sostegno più sicuro del marxismo. Il secondo strato comprende coloro che di recente sono usciti da classi non proletarie, dai contadini, dai piccoli borghesi, dagli intellettuali. Questa gente, proveniente da altre classi ed entrata solo recentemente nelle file del proletariato, ha portato nella classe operaia i propri costumi, le proprie abitudini, le proprie esitazioni, i propri tentennamenti. Questo strato costituisce il terreno più favorevole per i vari raggruppamenti anarchici, semianarchici e “di ultrasinistra”. Infine, il terzo strato è costituito dall’aristocrazia operaia, dal vertice della classe operaia, dalla parte più benestante del proletariato, che è portata ai compromessi con la borghesia, che è dominata dallo spirito di adattamento verso i potenti della terra, dalla aspirazione a “diventare qualcuno”. Questo strato costituisce il terreno più favorevole per i riformisti e gli opportunisti dichiarati».

Si noti come gli opposti tendano a finire sulle medesime posizioni politiche:

«il fatto che gli stati d’animo “di ultrasinistra” coincidano spessissimo con stati d’animo di aperto opportunismo non rappresenta nulla di strano. Lenin disse più di una volta che l’opposizione di “ultrasinistra” non è che l’altra faccia dell’opposizione di destra, menscevica, apertamente opportunista. Questo è assolutamente esatto. Se un “ultrasinistro” è per la rivoluzione soltanto perché aspetta la vittoria della rivoluzione il giorno dopo, è chiaro che costui deve cadere nella disperazione e nella delusione se la rivoluzione subisce un arresto, se la rivoluzione non vince proprio il giorno dopo».

Per Stalin queste contraddizioni e divergenze non si possono evitare:

«Credere di potere evitare queste contraddizioni significa ingannare se stessi. Engels aveva ragione quando affermava che è impossibile nascondere per molto tempo le contraddizioni all’interno del partito, che queste contraddizioni vanno risolte con la lotta. Ciò non significa che il partito debba essere trasformato in un circolo di discussioni. Al contrario, il partito proletario è e deve rimanere l’organizzazione combattiva del proletariato. […] non si può chiudere gli occhi e passare sopra alle divergenze all’interno del partito se queste divergenze hanno un carattere di principio. […] unicamente mediante la lotta per una linea di principio marxista si potrà salvaguardare il partito proletario dalla pressione e dall’influenza della borghesia. […] unicamente superando le contraddizioni all’interno del partito si potrà ottenere il risanamento e il rafforzamento del partito».

LA LOTTA DI CLASSE: NON SOLO CAPITALE-LAVORO

Queste divisioni dipendono da una profonda incomprensione della complessità della lotta di classe, la quale non è scomponibile solo sulla tripartizione economia-politica-cultura, ma anche sulla capacità di individuare e dare una risposta ad ogni forma di oppressione mantenendo la visione della totalità del reale. Esempio: alcuni socialisti mediocri nella guerra civile americana (1861-65) non si schierano, ritenendo che a capo di entrambe le parti ci siano esponenti delle classi dominanti. È un errore, tanto che Marx non esita a schierarsi dalla parte dei nordisti (in quanto anti-schiavisti), intrattenendosi a lungo in rapporti epistolari con Lincoln. Alla stessa maniera Marx ed Engels non si fanno remore a citare (ne La Sacra Famiglia) un socialista utopistico come Fourier quando dice una cosa giusta: «Il cambiamento di un’epoca storica si può definire sempre dal progresso femminile verso la libertà perché qui, nel rapporto della donna con l’uomo, del debole col forte, appare nel modo più evidente la vittoria della natura umana sulla brutalità. Il grado dell’emancipazione femminile è la misura naturale dell’emancipazione universale».

Pur tenendo fermo il principio della centralità del conflitto Capitale-Lavoro all’interno di una singola società, la lotta di classe è anche «sfruttamento di una nazione da parte di un’altra», come denuncia Marx, e l’oppressione «del sesso femminile da parte di quello maschile», come scrive Engels, che sviluppa il tema ne L’origine della famiglia, della proprietà privata, dello Stato (1884). Lo stesso Lenin affida incarichi di responsabilità a donne e vanta, dopo la rivoluzione del 1917, che

«nessun partito democratico del mondo e nessuna delle repubbliche borghesi più progredite ha fatto in decine d’anni nemmeno la centesima parte di quello che noi abbiamo fatto anche solo nel primo anno del nostro potere. Noi non abbiamo letteralmente lasciato pietra su pietra di tutte le abiette leggi sulla menomazione dei diritti della donna, sulle restrizioni al divorzio, sulle oziose formalità da cui era vincolata, sulla ricerca della paternità ecc».

«la donna, nonostante tutte le leggi liberatrici è rimasta una schiava della casa perché essa è oppressa, soffocata, inebetita, umiliata dalla meschina economia domestica che la incatena alla cucina, ai bambini e ne logora le forze in un lavoro bestialmente improduttivo, meschino, snervante che inebetisce e opprime. La vera emancipazione della donna, il vero comunismo incomincerà soltanto là e allora, dove e quando incomincerà la lotta delle masse contro la piccola economia domestica, o meglio dove incomincerà la trasformazione di questa economia nella grande economia socialista».

È messo in evidenza il rapporto tra la questione femminile e il tema generale della lotta per una nuova organizzazione della società. Ragionamenti ripresi da una marxista eterodossa come Simone De Beauvoir: «non ho mai nutrito l’illusione di trasformare la condizione femminile, essa dipende dall’avvenire del lavoro nel mondo e non cambierà seriamente che a prezzo di uno sconvolgimento della produzione. Per questo ho evitato di chiudermi nel cosiddetto femminismo». La compagna Alexandra Kollontai invece, prima donna della storia a ricoprire le cariche di ambasciatrice e ministro, in maniera più esplicita afferma che «la liberazione della donna può compiersi solo tramite una trasformazione radicale della vita quotidiana. E la vita quotidiana potrà essere modificata unicamente da un rinnovamento profondo dei processi di produzione, edificato sulle basi dell’economia comunista».

Da tutto ciò consegue (lo spiega bene Domenico Losurdo ne La lotta di classe) che la lotta di classe si sviluppa concretamente in almeno tre direzioni, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. Se volessimo ampliare il discorso potremmo raccontare che nel 2016 il compagno Raul Castro ricordava al presidente statunitense Obama che i diritti umani identificati dalle organizzazioni internazionali sono 61 e che nessun paese al mondo li rispetta tutti. Potremmo accennare sul tema anche alle questioni dei diritti delle minoranze di genere (LGBT) e della questione ambientale: su queste contraddizioni che esulano dal conflitto Capitale-Lavoro la borghesia odierna è molto più disponibile a scendere a compromessi, se non addirittura a farne la propria bandiera per spacciarsi come progressista. Deve esserci consapevolezza dell’uso strumentale di questi temi, ma data la potenza mediatica della borghesia, il modo migliore di affrontare i temi posti dagli altri partiti che abbiano un seguito popolare non è ignorarli, ma coglierne le istanze razionali e gli elementi progressivi e risolverli attraverso una sintesi politica più avanzata in un’ottica di classe. Si pensi all’ambiente: se il 70% delle emissioni inquinanti mondiali è prodotto oggi dalle prime 100 multinazionali, la risposta più efficace è pianificare e razionalizzare le attività produttive: cioè il socialismo. Il comunista consapevole della complessità del reale deve distinguere le contraddizioni primarie da quelle secondarie, identificando il nemico principale su cui concentrare le forze per ottenere avanzamenti politici. Nel fare ciò occorre «saper tenere conto di tutta la situazione concreta»5, ricordando che «le masse lavoratrici non accetteranno mai di rappresentarsi il “progresso” generale del paese senza rivendicazioni economiche, senza un diretto e immediato miglioramento delle proprie condizioni» (Lenin).6

DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA ALL’IMPERIALISMO

Nel delineare la direttrice dell’azione politica (prassi) occorre tornare all’analisi della complessità del reale (teoria), seguendo quel nesso dialettico che caratterizza il nostro metodo. Lenin studia con attenzione le categorie economiche sviluppate da Marx nel Capitale: non solo il primo volume (1867) ma anche i due successivi la cui pubblicazione è stata curata da Engels; a partire dalla critica scientifica dell’economia politica Lenin sviluppa la categoria dell’imperialismo, già presente nell’ultimo Marx, arricchendola con i dati pubblicati dagli economisti borghesi di fine ‘800 e inizio ‘900. Non sono poche le opere di analisi economica di Lenin: ne Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899) esamina la struttura economica locale; il capolavoro è però l’Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) in cui presenta la struttura economica internazionale partendo dalla descrizione marxiana del passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico. In regime di concorrenza (che è il modo di funzionamento del capitalismo nella sua prima fase storica), per aumentare la produttività si tende ad usare mezzi di produzione sempre più tecnologici. L’inserimento di macchine sempre più tecnologiche porta all’aumento della composizione organica di capitale. Questo implica la necessità di aumentare le dimensioni dell’azienda e dei capitali investiti. Per effetto della concorrenza si realizza quindi la concentrazione di capitale nelle mani dei grandi imprenditori che espellono i piccoli dal mercato o dei piccoli che si uniscono in processi di fusione e acquisizione per evitare di essere espulsi dal mercato. Le fusioni permettono di disporre di un capitale maggiore e di risparmiare sui costi fissi, razionalizzando la logistica e l’organizzazione burocratica. Un’altra leva per la centralizzazione dei capitali è il sistema del credito tramite cui le banche rastrellano il risparmio sociale per fornire agli imprenditori i capitali necessari. La centralizzazione dei capitali crea i monopoli. La parte più debole della borghesia viene espulsa dal mercato e si proletarizza, mentre il capitale si concentra nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di borghesi. Questo è il meccanismo secondo il quale già sul finire del XIX secolo la concorrenza si trasforma nel suo contrario, cioè nel monopolio. Quando un settore è monopolizzato accade che i prezzi non calano anche se cala il valore delle merci.

Il capitalismo monopolista diventa imperialismo, un regime in cui il capitale finanziario (integrazione di capitale industriale e capitale bancario) rappresenta il settore dominante. L’imperialismo si estende al mondo intero attraverso il colonialismo e le esportazioni di capitali che vanno a creare imprese capitalistiche in paesi o settori non ancora monopolizzati. È questo il motore della formazione di un mercato mondiale, che sfocia nel fenomeno della globalizzazione, caratterizzata dalla corsa alla spartizione dei mercati esteri e delle materie prime (anche e soprattutto tramite guerre di aggressione). Sul tema dell’imperialismo Lenin ci ha lasciato alcune delle pagine più ficcanti e attuali.

«Il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il “rentier”, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore […]. l’imperialismo, cioè l’egemonia del capitale finanziario, è lo stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione assume le maggiori dimensioni. […] Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci, per il nuovo capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è caratteristica l’esportazione del capitale. […] La necessità dell’esportazione di capitale è determinata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato più che maturo e al capitale […] non rimane più un campo di investimento redditizio».

Si può riassumere la definizione leniniana di imperialismo come «capitalismo giunto alla fase dello sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, ha acquisito grande importanza l’esportazione dei capitali, è iniziata la divisione del mondo fra i trust internazionali e i maggiori paesi capitalistici si sono divisi l’intera superficie terrestre». (da Stato e Rivoluzione) Il punto centrale di tale concezione sta nel darne una spiegazione economica, laddove gli studiosi borghesi lo descrivono come un fenomeno che origina dal Politico e che è identificabile meramente nell’annessionismo di nuovi territori andando a formare vasti imperi coloniali. I marxisti invece partono dall’Economia, collegando il fenomeno dell’imperialismo alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, che spinge in continuazione i capitalisti a cercare nuove maniere di far fronte alla diminuzione dei propri tassi di guadagno e accumulazione di capitale, determinando una condizione di guerra permanente contro i popoli del mondo:

«La proprietà privata, basata sul lavoro del piccolo proprietario, la libera concorrenza, la democrazia: tutte le parole d’ordine, insomma, che i capitalisti e la loro stampa usano per ingannare gli operai e i contadini, sono cose del passato. Il capitalismo si è trasformato in sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi “progrediti”». (da L’imperialismo, fase suprema del capitalismo)

Ne consegue la spartizione del mondo da parte delle grandi potenze capitalistiche:

«Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche ed internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica, come di fatto li assoggetta; ne vedremo ben presto degli esempi. Ma naturalmente esso trova la maggior “comodità” e i maggiori profitti allorché tale assoggettamento è accompagnato dalla perdita dell’indipendenza politica da parte dei paesi e popoli asserviti. Sotto tale rapporto i paesi semicoloniali costituiscono un caratteristico “quid medium”. È chiaro che la lotta per questi paesi semicoloniali diventa particolarmente acuta nell’epoca del capitale finanziario, allorché il resto del mondo è già spartito. Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. […] La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l’avversario, perfino contro la possibilità che l’avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie». (da L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo)

È a partire da tali analisi che Lenin lancia una profezia ben riuscita riguardo ad un’eventuale costruzione di una federazione europea:

«la parola d’ordine degli Stati Uniti repubblicani d’Europa […] è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, rimane pur sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, […] gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni. […] Così è organizzata, nel periodo del più alto sviluppo del capitalismo, la spoliazione di circa un miliardo di uomini da parte di un gruppetto di grandi potenze. E nessun’altra forma di organizzazione è possibile in regime capitalistico. Rinunciare alle colonie, alle “sfere di influenza”, all’esportazione di capitali? Pensare questo, significherebbe mettersi al livello del pretonzolo che ogni domenica predica ai ricchi la grandezza del cristianesimo e consiglia di fare dono ai poveri… […] Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa e per conservare tutti insieme le colonie accaparrate […] Gli Stati Uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici». (Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, 23 agosto 1915)

Una particolare importanza nell’analisi di Lenin ha la “legge dell’ineguale sviluppo”, secondo cui i paesi capitalisti più sviluppati si rafforzano più velocemente di quelli più deboli. Ne conseguono conflitti, armati e non, tra i paesi imperialisti e da questi contrasti ne scaturisce anche la conclusione per Lenin che un rivolgimento socialista possa attuarsi con successo e consolidarsi in modo duraturo dapprima anche in un solo paese, e cioè in un paese economicamente arretrato. La catena delle nazioni capitaliste si spezza nel suo “anello più debole”. In questa maniera Lenin va oltre Marx rompendo il dogma della rivoluzione internazionale formulato da Marx sulla scia dell’impressione generata dalla rivolta europea del 1848. Dalla rivoluzione socialista in un solo paese alla costruzione del socialismo in un solo paese il passo sarà molto breve, e sarà Stalin a farlo, ma le premesse sono già in Lenin. È a partire da queste analisi che Lenin giudica la prima guerra mondiale una guerra imperialista, rompendo con la II Internazionale, i cui dirigenti sono accusati apertamente di tradimento per aver votato a favore dei crediti di guerra dei propri governi, cercando vanamente di giustificare che i propri paesi, nonostante un uguale assetto capitalistico e imperialista, fossero più progressivi o avanzati degli altri. Che sia opportunismo o errore di analisi le colpe sono troppo gravi per essere perdonate, e tutto ciò viene fatto non da un punto di vista pacifista e non-violento, ma da un’ottica pragmatica che può portare ad uno sbocco rivoluzionario. Lenin parla chiaro:

«Il marxismo non è pacifismo. È necessario lottare per la più rapida liquidazione della guerra. Ma la rivendicazione della “pace” assume un significato proletario soltanto con l’appello alla lotta rivoluzionaria. Senza una serie di rivoluzioni, la cosiddetta pace democratica è un’utopia piccolo-borghese. Come programma effettivo d’azione ci può essere solo il programma marxista, che dia alle masse una completa e chiara risposta a ciò che è avvenuto, spieghi che cos’è l’imperialismo e come bisogna lottare contro di esso, dichiari apertamente che l’opportunismo ha condotto al fallimento della II Internazionale, inviti apertamente a costituire un’Internazionale marxista senza e contro gli opportunisti». (da Il socialismo e la guerra, 1915)

LA TRUFFA DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE BORGHESE

Strettamente correlata all’analisi dell’imperialismo è la critica leninista alla democrazia liberale. Intendiamoci: Lenin ribadisce più volte l’assurdità dell’idea che la rivoluzione borghese, con il passaggio ad un regime democratico liberale, non esprima affatto gli interessi del proletariato, infatti la rivoluzione borghese «offre al proletariato lo spazio più ampio per la sua azione». L’ottica di Lenin è molto chiara e ricalca quella già tracciata da Marx ed Engels: «il marxismo insegna al proletario non ad appartarsi dalla rivoluzione borghese, a mostrarsi indifferente, ad abbandonare la direzione alla borghesia, ma, al contrario, a parteciparvi nel modo più energico, a lottare nel modo più risoluto per una democrazia proletaria conseguente, per condurre a termine la rivoluzione».7 L’obiettivo è andare oltre i limiti angusti del liberalismo: nelle condizioni ideali la realizzazione della democrazia conduce direttamente al socialismo. Lenin sa che la borghesia liberale cerca sempre di limitare una reale democratizzazione istituzionale e sociale, di impedire la rivoluzione sociale e di limitare il più possibile i parametri di una rivoluzione politica. Si consideri ad esempio questo passaggio:

«Quando un banchiere pubblica le entrate e le spese di un operaio, i dati sul salario e la produttività del suo lavoro, nessuno pensa di vedervi l’intromissione nella vita privata dell’operaio o una delazione… E se accadesse l’inverso? Se gli operai e gli impiegati controllassero le spese dei capitalisti e pubblicassero i loro conti e i loro dati? Quali grida selvagge contro lo spionaggio e la delazione! Quando i capitalisti controllano gli operai, si considera tutto naturale. Ma quando gli oppressi vogliono controllare gli oppressori, svelarne le entrate e le uscite, oh no, la borghesia non tollera lo spionaggio… La questione si riduce sempre a questa: il dominio della borghesia è incompatibile con una democrazia vera. E nel XX secolo una democrazia vera è impossibile se si ha paura di marciare verso il socialismo». (da La Catastrofe imminente e come lottare contro di essa, 10-14 settembre 1917)

Per queste ragioni Lenin ricorda l’assoluta priorità di mantenere un’ottica rivoluzionaria e l’impossibilità di accontentarsi di una serie di riforme, sia pur avanzate: «Gli operai possono ottenere una maggiore o minore libertà politica per lottare per la propria emancipazione economica, ma nessuna libertà li strapperà alla miseria, alla disoccupazione e all’oppressione, fino a che il potere del capitale non sarà stato abbattuto». (da Socialismo e religione, 3 dicembre 1905) Lenin è ben consapevole della critica alla democrazia liberale fatta da Marx, e su questo tema aggiunge pagine ancora più incisive che mostrano la vacuità di una democrazia liberale borghese in cui di fatto comanda il Capitale:

«Parlare di democrazia pura, di democrazia in generale, di uguaglianza, libertà, universalità, mentre gli operai e tutti i lavoratori vengono affamati, spogliati, condotti alla rovina e all’esaurimento non solo dalla schiavitù salariata capitalistica, ma anche da quattro anni di una guerra di rapina, mentre i capitalisti e gli speculatori continuano a detenere la “proprietà” estorta e l’apparato “già pronto” del potere statale, significa prendersi gioco dei lavoratori e degli sfruttati. Significa rompere bruscamente con le verità fondamentali del marxismo, il quale ha detto agli operai: voi dovete utilizzare la democrazia borghese come un immenso progresso storico rispetto al feudalesimo, ma non dovete nemmeno per un istante dimenticare il carattere borghese di questa “democrazia”, la sua natura storicamente condizionata e limitata, non dovete condividere la “fede superstiziosa” nello “Stato”, non dovete scordare che lo Stato, persino nella repubblica più democratica, e non soltanto in regime monarchico, è soltanto una macchina di oppressione di una classe su di un’altra classe». (da Stato e Rivoluzione)

«La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell’antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché, nel corso ordinato e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un’infima minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo più da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e sempre – sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia nell’organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi dell’esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!» (da Stato e Rivoluzione)

Ecco perché per Lenin «le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono […] una dittatura della borghesia». «La democrazia è una forma di governo in cui ogni quattro anni viene cambiato il tiranno». «La democrazia parlamentare è il miglior involucro per il capitalismo». Alcune precisazioni: il marxismo ha in comune con l’anarchismo l’avversione verso il concetto di “Stato”, sovrastruttura con cui una classe ne opprime un’altra. D’altronde, dice Lenin, «lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch’essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità». (da Stato e Rivoluzione) Dal punto di vista teorico, la lezione è di utilizzare lo Stato per sottomettere la classe borghese, come aveva insegnato Engels: «Finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e, quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere». (Stato e Rivoluzione) Di qui lo sviluppo della categoria della dittatura del proletariato, perché lo Stato che occorre per necessità mantenere non è lo Stato borghese: «lo Stato di questo periodo (dittatura del proletariato) deve essere uno stato democratico in modo nuovo per i proletari e i non abbienti in generale, e dittatoriale in modo nuovo contro la borghesia». E sicuramente lo Stato borghese «non può essere sostituito dallo Stato proletario (dittatura del proletariato) per via di estinzione; può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della rivoluzione violenta». E ancora:

«La dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per l’intero periodo storico che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, dal comunismo». (da Stato e Rivoluzione)

«La dittatura del proletariato è la guerra più eroica e più implacabile della classe nuova contro un nemico più potente, contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere stata rovesciata (sia pure in un solo paese), e la cui potenza non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e nella solidità dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza dell’abitudine, nella forza della piccola produzione; poiché, per disgrazia, la piccola produzione esiste tuttora in misura molto, molto grande, e la piccola produzione genera il capitalismo e la borghesia costantemente, ogni giorno, ogni ora, in modo spontaneo e in vaste proporzioni. Per tutte queste ragioni la dittatura del proletariato è necessaria, e la vittoria sulla borghesia è impossibile senza una guerra lunga, tenace, disperata, per la vita e per la morte, una guerra che richiede padronanza di sé, disciplina, fermezza, inflessibilità e unità di volere». (da L’estremismo malattia infantile del comunismo)

«Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato». (da Stato e Rivoluzione)

Alle accuse di voler costruire uno Stato illiberale Lenin risponderebbe probabilmente che «la libertà è una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà dell’industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera della libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati». (dal Che Fare?) Oppure che «la “democrazia moderna” […] non è altro che la libertà di predicare ciò che conviene alla borghesia e cioè le idee più reazionarie, la religione, l’oscurantismo, la difesa degli sfruttatori, ecc». (da Il significato del materialismo militante, 12 marzo 1922)

IL PARTITO D’AVANGUARDIA CONTRO LO SPONTANEISMO

Il buon comunista non legge solo testi marxisti, ma si interessa di ogni aspetto della vita e della società, e si tiene aggiornato anche sulle novità letterarie e saggistiche. Un esempio è la conoscenza di Lenin dell’opera La Psicologia delle folle, un saggio psico-sociologico di Gustave Le Bon del 1895, molto importante perché il primo a mettere per iscritto le tecniche di condizionamento e controllo delle masse, adattando alla sociologia e alla politica le nuove categorie della psicologia. Il testo di Le Bon è diventato un bestseller e all’epoca tutti i principali uomini politici (tra questi oltre a Lenin si citano spesso Mussolini, Hitler e Stalin, ma sarebbe il caso di aggiungere anche gli statisti “liberali”) comprendono come le tecniche industriali e mediatiche, usate in una maniera opportuna, siano in grado di determinare il pensiero e il comportamento della società di massa. Per Lenin è abbastanza elementare, rafforzando le tesi marxiste sul condizionamento sociale dell’esistenza individuale. Lenin apporta però un’innovazione accentuando la polemica contro la cosiddetta “spontaneità” delle masse. L’opera di riferimento è il Che fare? (1902), in cui delinea la sua teoria dell’organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario del proletariato, unico strumento in grado di esercitare un’egemonia sulla società. Rispondendo agli economicisti, che rifiutano la lotta politica e vorrebbero concentrare tutte le energie sulle lotte economiche, Lenin sostiene che la classe operaia, lasciata da sola, non riesce a concepire una società diversa da quella in cui vive e quindi non arriva all’ideale comunista, ma nel migliore dei casi si ferma ad una coscienza sindacalista, limitandosi alla richiesta di riforme (aumenti salari, miglioramento condizioni di lavoro). Perciò non bastano i sindacati, ma è necessario un partito per abbattere l’ordinamento borghese. L’approccio sindacalista medio mira infatti solo ad un miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore, senza interessarsi che questo avvenga a scapito di lavoratori di altre categorie o di altri paesi. I comunisti hanno quindi una visione più ampia rispetto ai sindacalisti, perciò la lotta per l’uguaglianza delle diverse nazioni non è solo un ideale etico, ma la precondizione per la liberazione dei lavoratori di tutto il mondo. Dato che la coscienza politica comunista può essere portata solo “dall’esterno”, Lenin propone la formazione di un partito rivoluzionario composto dall’avanguardia politica e culturale della classe operaia, ma senza preclusioni a membri di altre classi, purché si riconoscano nel Programma del Partito. Lo scopo è dare una guida chiara e decisa alla maggioranza del proletariato:

«La teoria di Marx ha chiarito il vero compito di un partito socialista rivoluzionario: non elaborazione di piani per riorganizzare la società, non prediche ai capitalisti ed ai loro reggicoda sul modo di migliorare la situazione degli operai, non organizzazione di congiure, ma organizzazione della lotta di classe del proletariato e direzione di questa lotta, il cui scopo finale è la conquista del potere politico da parte del proletariato e l’organizzazione della società socialista». (da Lettera al gruppo dei redattori, 1899)

La critica di Lenin non si rivolge solo ai sindacati (considerati comunque uno strumento fondamentale per il proletariato), ma in generale ad ogni tipo di movimentismo e spontaneità carente di organizzazione e teoria. Si veda il seguente passo: basterà sostituire la parola “socialdemocratico” con “comunista” e il Raboceie Dielo (giornale dell’area movimentista del partito socialdemocratico russo dell’epoca) con qualsiasi movimento italiano odierno per vederne l’attualità:

«la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movimento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa “tattica-processo”, ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo. Certo si è che della gente fermamente decisa a stare sempre dietro al movimento come una coda è assolutamente e per sempre garantita contro la “sottovalutazione dell’elemento spontaneo dello sviluppo”. Abbiamo dunque costatato che l’errore fondamentale della “nuova tendenza” della socialdemocrazia russa è di sottomettersi alla spontaneità, di non comprendere che la spontaneità delle masse esige da noi, socialdemocratici, un alto grado di coscienza. Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa della socialdemocrazia».

IL COMPITO DEI COMUNISTI DI ELEVARE LA COSCIENZA

Compito dell’avanguardia comunista è quindi elevare la coscienza politica dei lavoratori:

«associazioni operaie di mestiere, circoli operai di istruzione e di lettura delle pubblicazioni illegali, circoli socialisti e anche democratici per tutti gli altri ceti della popolazione, ecc. Dappertutto vi è necessità di questi circoli, associazioni e organizzazioni; bisogna che essi siano il più possibile numerosi, con i compiti più diversi, ma è assurdo e dannoso confonderli con l’organizzazione dei rivoluzionari, cancellare la distinzione che li separa, spegnere nella massa la convinzione già debolissima che per “servire” un movimento di massa sono necessari uomini i quali si consacrino specialmente e interamente all’azione socialdemocratica, si diano pazientemente, ostinatamente un’educazione di rivoluzionari di professione. […] Un rivoluzionario fiacco, esitante nelle questioni teoriche, con un orizzonte limitato, che giustifichi la propria inerzia con la spontaneità del movimento di massa, […] incapace di presentare un piano ardito e vasto che costringa al rispetto anche gli avversari, un rivoluzionario inesperto e malaccorto nel proprio mestiere […], può forse chiamarsi un rivoluzionario? No. È solo un povero artigiano. […] il nostro compito non consiste nell’abbassare il rivoluzionario al lavoro dell’artigiano, ma nell’elevare quest’ultimo al lavoro del rivoluzionario».


I
l rapporto tra proletari e partito non va inteso a senso unico (cioè di una pedagogia pedante e settaria) ma in modo dialettico: non ci si può aspettare che tutti si “elevino” al livello degli intellettuali marxisti, ma occorre lavorare con l’uomo di cui si dispone nel presente: «Noi possiamo (e dobbiamo) incominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Ciò è senza dubbio molto “difficile”. Ma ogni altro modo di affrontare il compito è così poco serio, che non vale la pena di parlarne».

C’è consapevolezza che non sempre si riesce ad adempiere al compito prefisso. Così lo stesso Lenin: «Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo al quale non solo sono estranee le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù, un tale schiavo è un lacchè e un bruto che desta un senso legittimo di sdegno, di disgusto e ripugnanza». Senz’altro l’affermazione più sferzante e nota al grande pubblico è l’apologia contro l’indifferenza formulata da Antonio Gramsci:

«Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. […] Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime».

Al di là degli sfoghi momentanei è evidente come i comunisti non possano chiudersi nelle biblioteche perdendo di vista il contatto con le masse. Così Lenin: «Il compito dei comunisti consiste nel saper convincere i ritardatari, nel saper lavorare fra loro, nel non separarsi da loro con parole d’ordine di sinistra cervellotiche e puerili». Così Gramsci: «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti “spontanei”, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli a un piano superiore inserendoli nella politica; può avere spesso conseguenze molto serie e gravi».

IL CENTRALISMO DEMOCRATICO

Il Partito comunista non è quindi un’organizzazione che nasce dal basso, ma dall’alto, in cui è fondamentale il ruolo dei dirigenti, i rivoluzionari di professione stipendiati dal Partito. Gramsci li chiama i “capitani”: «si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto è vero che un esercito [già esistente] è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste». (Quaderno 14 (I) § (70)) Per rispondere alla guerra della borghesia il Partito ha solo

un’arma: l’organizzazione. L’organizzazione più efficace è data dal centralismo democratico, ovvero «libertà di discussione, unità d’azione». L’aspetto democratico consiste nella libertà di discutere e dibattere su politica e direzione, ma una volta che la decisione sia presa, se necessario con un voto di maggioranza, tutti i membri si devono impegnare a sostenere la decisione, anche se inizialmente non erano d’accordo. Di qui il centralismo. Gli statuti delle organizzazioni leniniste hanno definito i seguenti principi-base del centralismo democratico:

– Carattere elettivo e revocabile di tutti gli organi di partito dalla base al vertice.

– Tutte le strutture devono rendere conto regolarmente del loro operato a chi li ha eletti e agli organi superiori.

– Una rigida e responsabile disciplina nel partito, subordinazione della minoranza alla maggioranza («la negazione del partito e della disciplina di partito […] ciò equivale al completo disarmo del proletariato a favore della borghesia», afferma perentorio Lenin).

– Libertà di critica e autocritica all’interno del partito, ma divieto assoluto di palesare divisioni all’esterno per non incrinarne l’immagine agli occhi delle masse.

– Divieto assoluto di pratiche frazioniste che tendano alla costruzione di correnti interne.

– Le decisioni degli organi superiori sono vincolanti per gli organi inferiori.

– Cooperazione collettiva di tutti gli organi al lavoro e alla direzione, e allo stesso tempo responsabilità individuale di ogni membro del partito sul proprio operato.

COME LOTTARE? REALPOLITIK E UTOPIA

La grandezza di Lenin sta anche nell’aver saputo muoversi con grande maestria dall’utopia di Stato e Rivoluzione al realismo politico de L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Molti pensano che i bolscevichi siano degli estremisti settari. Lenin ribadisce invece che si possono e si devono stringere accordi e alleanze sociali e politiche:

«Il capitalismo non sarebbe capitalismo, se il proletariato puro non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletariato (colui che si procura di che vivere solo a metà, mediante la vendita della propria forza lavoro), tra il semiproletariato e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, l’artiere, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se, in seno al proletariato stesso, non vi fossero delle suddivisioni in strati più o meno sviluppati, delle suddivisioni per regioni, per mestiere, talvolta per religioni e così di seguito. E da tutto ciò deriva la necessità, assoluta e incondizionata per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso e per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi e compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli produttori. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere». (da L’estremismo malattia infantile del comunismo)

Naturalmente, precisa Lenin,

«vi sono compromessi e compromessi. Si deve essere capaci di analizzare le circostanze e le condizioni concrete di ogni compromesso e di ogni specie di compromesso. Si deve imparare a distinguere l’uomo che ha dato denaro e armi ai banditi per ridurre il male che i banditi commettono e facilitarne l‘arresto e la fucilazione, dall’uomo che dà denaro e armi ai banditi per spartire con essi la refurtiva. Nella politica, questo non è sempre così facile come nel piccolo esempio che ho citato e che un bambino può comprendere. Ma chi volesse escogitare una ricetta per gli operai, che offrisse loro decisioni preparate in anticipo per tutti i casi della vita, o promettesse loro che nella politica del proletariato rivoluzionario non ci saranno mai difficoltà e situazioni complicate, sarebbe semplicemente un ciarlatano».

E ancora, condividendo il pensiero di Marx: «Se è necessario unirsi, fate accordi allo scopo di raggiungere i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei princípi e non fate concessioni teoriche». Quel che serve è sempre l’analisi concreta della situazione concreta, come quella di Lenin nell’aprile 1917, quando rompendo ogni schematismo e dogmatismo, espone le sue Tesi che affermano la possibilità in Russia di saltare la fase di rafforzamento della democrazia liberale borghese e di passare direttamente alla rivoluzione socialista. Basta sfruttare uno slogan semplice, “pace, pane, terra”: tre parole d’ordine ripetute come un mantra da ogni bolscevico in ogni assise del paese, soprattutto in quelle assemblee popolari chiamate Soviet. Uno slogan semplice ma efficace, che mostra come i comunisti debbano saper declinare con linguaggio popolare le proprie idee, adottando quello che oggi verrebbe chiamato un populismo di sinistra. La rivoluzione d’Ottobre è peraltro un ottimo esempio di come si possa giungere perfino a mettere da parte un pezzo non secondario del proprio programma politico: il programma bolscevico storicamente prevedeva la nazionalizzazione della terra. Lenin mette da parte questa rivendicazione per venire incontro alle richieste dei contadini che invece chiedono una redistribuzione. Così facendo ottiene il supporto dei contadini di tutto il paese, vince e conquista il potere politico.

IL PARLAMENTO USATO COME MEZZO RIVOLUZIONARIO

È dalla capacità di maneggiare la dialettica che diventa possibile articolare diverse strategie e tattiche a seconda dei momenti, a volte con cambiamenti bruschi al limite della contraddizione e dell’ipocrisia, ma comprensibili solo alla luce dei mutamenti di scenario politico e di idee tra le grandi masse. Ad esempio quando lo zar, per placare la rivoluzione del 1905, decide di concedere una carta costituzionale e un parlamento eletto su base censitaria, Lenin inizialmente è favorevole al boicottaggio delle elezioni, cercando di promuovere la continuazione della rivolta; nel momento in cui il movimento di protesta si spegne cambia idea e deve combattere i duri e puri che vorrebbero continuare ad oltranza la tattica astensionista. Per Lenin è un errore, perché in un momento di ristagno del movimento significa privarsi di uno strumento utile per la propaganda. Sa bene che Marx ed Engels hanno messo in guardia dal “cretinismo parlamentare”, ossia dalla dedizione assoluta ai soli processi che si svolgono nell’arena parlamentare. Ma sa bene anche che la gran parte del popolo vive in una condizione di falsa coscienza tale da non aver compreso la truffa della democrazia liberale. Se è giudicato utile alla causa, il compito dei comunisti diventa sporcarsi le mani e calarsi nei meandri malsani della politica borghese, rigettando posture morali tipiche delle “anime belle”:

«Voi siete in dovere di non scendere al livello delle masse, al livello degli strati arretrati della classe. Questo è incontestabile. Voi avete il dovere di dir loro l’amara verità. Voi avete il dovere di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratici borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete il dovere di considerare ponderatamente lo stato effettivo della coscienza e della maturità della classe tutta intera (e non soltanto della sua avanguardia comunista), di tutte quante le masse lavoratrici (e non soltanto di singoli elementi avanzati). […] la partecipazione alle elezioni parlamentari e alla lotta dalla tribuna parlamentare è obbligatoria per il partito del proletariato rivoluzionario, precisamente al fine di educare gli stati arretrati della propria classe, precisamente al fine di risvegliare e di illuminare le masse rurali, non evolute, oppresse, ignoranti. Finché voi non siete in grado di sciogliere il Parlamento borghese e le istituzioni reazionarie di ogni tipo, voi avete l’obbligo di lavorare nel seno di tali istituzioni appunto perché là vi sono ancora degli operai ingannati dai preti e dall’ambiente dei piccoli centri sperduti; altrimenti rischiate di essere soltanto dei chiacchieroni».

Non vuol dire che i comunisti debbano svendere la propria identità o il proprio programma per entrare nei parlamenti borghesi, anzi: «ogni deputato comunista al parlamento deve essere penetrato dall’idea che egli non è per nulla un legislatore, che cerca un compromesso con altri legislatori, ma un agitatore del partito inviato nel campo nemico per applicarvi la decisione del partito» afferma Bucharin. Lenin non esita a dichiarare sprezzante che «la potenza del capitale è tutto, la Borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un gioco da marionette, di pupazzi», al quale pure occorre partecipare, ma unicamente come mezzo, mai come fine ultimo, che resta la presa del potere, per conquistare il quale non basta la maggioranza elettorale, ma serve un consenso sociale, politico e culturale tale da consentire, con il coinvolgimento o almeno il silenzioso assenso delle masse, l’abbattimento delle istituzioni borghesi. Così Lenin risponde a Bordiga, noto per la sua tesi astensionistica:

«Solo quando si è membri del parlamento borghese si può combattere – partendo dalle condizioni storiche esistenti – la società borghese e il parlamentarismo. Lo stesso mezzo che la borghesia utilizza nella lotta deve essere adoperato – s’intende per fini del tutto diversi – anche dal proletariato. […] Bisogna sapere in che modo si può distruggere il parlamento. Se poteste distruggerlo in tutti i paesi con una insurrezione armata, sarebbe una gran bella cosa. […] Ma voi avete dimenticato che ciò è impossibile senza una preparazione abbastanza lunga e che, nella maggioranza dei paesi, è ancora impossibile distruggere il parlamento di un sol colpo. Noi siamo costretti a condurre anche nel parlamento la lotta per la distruzione del parlamento. […] In tutti i paesi capitalistici esistono elementi arretrati della classe operaia i quali sono convinti che il parlamento sia una vera rappresentanza del popolo e non vedono che vi si fa uso di mezzi poco puliti. Si dice che il parlamento è uno strumento della borghesia per ingannare le masse. Ma questo argomento si ritorce contro voi e le vostre tesi. Come mostrerete alle masse effettivamente arretrate e ingannate dalla borghesia il vero carattere del parlamento? Come smaschererete tale o talaltra manovra parlamentare, la posizione di tale o talaltro partito, se non entrate nel parlamento, se siete fuori del parlamento? […] Si è detto che partecipando alla lotta parlamentare perdiamo molto tempo. Ma è possibile immaginare un’altra istituzione alla quale tutte le classi siano interessate in egual misura che al parlamento? Un’istituzione simile non può essere creata artificialmente. Se tutte le classi sono spinte a partecipare alla lotta parlamentare, vuol dire che gli interessi e i conflitti si riflettono effettivamente nel parlamento. Se fosse subito possibile organizzare dovunque e d’un tratto uno sciopero generale per abbattere di colpo il capitalismo, la rivoluzione sarebbe già avvenuta in diversi paesi. Ma bisogna tener conto dei fatti, e per ora il parlamento è ancora un’arena della lotta di classe».

LA QUESTIONE SINDACALE E LA SCELTA DEI METODI DI LOTTA

In base allo stesso ragionamento Lenin ritiene imprescindibile la presenza organizzata dei comunisti nei sindacati, anche i più reazionari:

«i sindacati incominciarono inevitabilmente a rivelare alcuni tratti reazionari, un certo angusto spirito corporativo, una certa propensione all’apoliticismo, una certa fossilizzazione, ecc. Ma il proletariato, in nessun paese del mondo, non si è sviluppato, né poteva svilupparsi altrimenti che per mezzo dei sindacati, per mezzo dell’azione reciproca tra sindacati e partito della classe operaia. […] il partito deve ancor più, in una forma nuova e non soltanto come prima, educare i sindacati e dirigerli, senza però dimenticare, nel tempo stesso, che essi sono, e per molto ancora resteranno, una necessaria “scuola di comunismo” e una scuola preparatoria per la realizzazione, da parte dei proletari, della loro dittatura; una unione necessaria degli operai per il graduale passaggio dell’amministrazione di tutta l’economia del paese nelle mani della classe operaia (e non di singole professioni), e quindi nelle mani di tutti i lavoratori. […] In Occidente, i menscevichi di colà si sono “annidati” molto più solidamente nei sindacati; là si è formato uno strato, molto più forte che da noi, di “aristocrazia operaia” corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo borghese, di mentalità imperialista, asservita e corrotta dall’imperialismo. Ciò è incontestabile. La lotta […] nell’Europa occidentale è incomparabilmente più difficile della lotta contro i nostri menscevichi, i quali rappresentano un tipo sociale e politico del tutto analogo. Questa lotta deve essere condotta senza pietà e, come noi abbiamo fatto, deve essere necessariamente continuata fino a coprire di vergogna, fino a estirpare completamente dai sindacati tutti i capi incorreggibili dell’opportunismo e del socialsciovinismo».

Sembra la descrizione dei sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL), ormai da decenni sindacati “gialli”, ossia concertativi e compiacenti con il padronato al punto da aver abbandonato ogni forma di conflittualità e identità di classe. Stante questa situazione scandalosa alcuni compagni si chiedono se l’indicazione di Lenin rimanga valida, o se non sia più utile tentare di costruire organizzazioni sindacali nuove, ristabilendo una “cinghia di trasmissione” diretta con il Partito in un processo di crescita reciproca. Il tema è estremamente problematico e rimane sostanzialmente aperto, rientrando più in generale nella questione dell’esame delle tattiche e delle forme di lotta da adottare, la cui risposta non può che venire dalla prassi e dalla constatazione che la strategia migliore sarà quella capace di dare più risultati nell’elevazione della coscienza politica dei lavoratori e nel rafforzamento del Partito. In linea di principio tra i metodi da adottare non è esclusa a priori nemmeno la lotta armata, figurarsi lo stare dentro un sindacato reazionario:

«il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perché non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le “inventa”, ma si limita a generalizzarle e a organizzarle, e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento. Irriducibilmente ostile a ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo esige un attento esame della lotta di massa in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l’elevarsi della coscienza delle masse, con l’inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più svariati metodi di difesa e di attacco. Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta e non si limita in nessun caso a quelle possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, in seguito al modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall’esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino dai “sistematici”. […] Tentar di dare una risposta affermativa o negativa alla richiesta di indicare l’idoneità di un certo mezzo di lotta senza esaminare nei particolari la situazione concreta di un determinato movimento in una data fase del suo sviluppo, significa abbandonare completamente il terreno del marxismo. Questi sono i due principi teorici fondamentali cui dobbiamo attenerci. […] Il marxista si pone sul terreno della lotta di classe, e non su quello della pace sociale. In certi periodi di acuta crisi economica e politica, la lotta di classe si sviluppa sino a trasformarsi in aperta guerra civile, cioè in lotta armata fra due parti del popolo. In questi periodi il marxista ha il dovere di porsi sul terreno della guerra civile. Ogni sua condanna morale è assolutamente inammissibile per il marxismo».

Si tenga presente questo discorso anche per comprendere quello che gli storici borghesi chiamano il “terrore rosso”, dimenticando il terrore di massa e la violenza organizzata che ha caratterizzato per secoli la gestione politica delle loro icone “liberali”.

IL CAPITALISMO DI STATO E GLI ULTIMI SCRITTI

L’ultima fase dell’opera di Lenin è la meno conosciuta, ed è un bene che Vladimiro Giacché l’abbia riscoperta nell’opera Economia della rivoluzione. Ne emerge la consapevolezza che la dittatura del proletariato sarebbe durata più a lungo del previsto, e che ciononostante, anche in mancanza dello scoppio della tanto attesa rivoluzione in Occidente, il compito dei bolscevichi diventa lavorare al rafforzamento del nuovo Stato operaio e contadino, mostrando al mondo intero che il proletariato può governarsi da solo, senza padroni. Così Lenin sul lungo processo dialettico che conduce al socialismo:

«noi abbiamo imparato anche, per lo meno sino a un certo punto, un’altra arte, necessaria nella rivoluzione: la flessibilità, la capacità di cambiare rapidamente e bruscamente la nostra tattica, di tenere in considerazione i mutamenti delle condizioni obiettive, di scegliere una nuova via verso il nostro scopo se quella di prima si è dimostrata inapplicabile, impossibile per un determinato periodo di tempo. Trasportati dall’ondata dell’entusiasmo e avendo risvegliato l’entusiasmo popolare prima genericamente politico e poi militare — noi contavamo di adempiere direttamente, sulla base di questo entusiasmo, anche i compiti economici non meno grandi di quelli politici e di quelli militari. Noi contavamo — o forse, più esattamente, ci proponevamo, senza aver fatto un calcolo sufficiente — di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare — con un lavoro di una lunga serie d’anni — il passaggio al comunismo. Non direttamente sull’entusiasmo, ma con l’aiuto dell’entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull’interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo […]. Lo Stato proletario deve diventare un “padrone” cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all’ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. Oggi, nelle condizioni attuali, accanto all’occidente capitalista […], non c’è altro mezzo per passare al comunismo. Un commerciante all’ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto una delle contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato, conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L’interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell’aumento della produzione, innanzi tutto e a qualunque costo». (da Per il quarto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, 18 ottobre 1921)

Lo Stato proletario necessita quindi anzitutto dello sviluppo intensivo delle forze di produzione, obiettivo strategico per il quale può tornare utile anche il mantenimento di rapporti di produzione capitalistici. Come dice Lenin: «il progresso delle forze produttive è il nostro compito fondamentale ed improrogabile. […] Cediamo gli stabilimenti che non ci sono strettamente indispensabili ad appaltatori privati, compresi i capitalisti privati e gli investitori stranieri». (da Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova, in Pravda, 28 agosto 1921) Questo d’altronde è il motivo per cui dal 1921 Lenin lancia la NEP (Nuova Politica Economica), che reimmettendo elementi di mercato e di capitalismo pone fine alla stagione del “comunismo di guerra”. Dato che la Cina alla fine degli anni ’70 si ispirerà proprio a questa svolta e il tema è molto “caldo”, approfondiamo i ragionamenti sul capitalismo di Stato e sulla necessità di distinguere tra potere politico ed economico:

«Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero. Pur non snazionalizzando nulla, cederemo ai capitalisti stranieri miniere, boschi, pozzi petroliferi, per ottenere in cambio prodotti industriali, macchine, ecc, per ricostruire in tal modo la nostra industria». (dal Rapporto al III Congresso dell’Internazionale comunista il 5 luglio 1921, noto anche come La tattica del Partito comunista russo)

Ancora sul capitalismo di Stato:

«il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo! Infatti se una grandissima azienda capitalistica diventa un monopolio, vuol dire che essa lavora per tutto il popolo. Se è diventata un monopolio di Stato, vuol dire che lo Stato […] dirige tutta questa impresa. Nell’interesse di chi? O nell’interesse dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, e allora non avremo uno Stato democratico rivoluzionario, ma burocratico reazionario, una repubblica imperialistica; o nell’interesse della democrazia rivoluzionaria, e questo sarà allora un passo verso il socialismo. Perché il socialismo non è altro che il passo avanti che segue immediatamente il monopolio capitalistico di Stato. O, in altre parole: il socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. […] il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». (da La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, 1917)

Questi gli insegnamenti di Lenin, oggi troppo spesso sconosciuti o ignorati, specie da coloro che bollano l’URSS come un totalitarismo non capendo invece che tale Stato socialista ha costituito nel XX secolo il principale baluardo del progresso contro la barbarie capitalista e i suoi terroristici stati borghesi. Il resto è chiacchiericcio utopistico e menzognero utile per sognatori e idealisti privi del benché minimo contatto con la realtà.

I PROBLEMI IRRISOLTI

1) LA LEGITTIMITÀ DELLA NEP CINESE

La NEP, con la sua reintroduzione di elementi capitalistici, è una forma di “socialismo di mercato”, la cui misura può variare ed essere più o meno ampia, a seconda dei settori e dello spazio che lo Stato proletario decide di concedere alla borghesia. Si può considerare la NEP una forma di tradimento? Certamente ciò è stato fatto, ma in base ad una lettura schematica e dogmatica. Alla stessa maniera non si può parlare di tradimento per quanto accaduto nella Cina post-maoista, che ha sviluppato una NEP molto più marcata rispetto a quella sovietica. L’URSS ha dovuto interrompere la NEP per ragioni di politica estera e di accelerazione dello sviluppo interno, giocando sulla mobilitazione di massa in condizioni di straordinaria emergenza. La Cina ha goduto di un contesto diverso e la NEP le ha consentito di assumere la leadership della globalizzazione.

2) LA NECESSITÀ DI AGGIORNARE IL PARADIGMA IMPERIALISTA

Quando Lenin ha scritto L’imperialismo non esistevano Stati socialisti e si potevano solo immaginare le problematiche che avrebbe dovuto affrontare il movimento operaio una volta giunto al potere. Sia l’URSS che la Cina attuale sono state o sono accusate di imperialismo. L’accusa viene non solo da destra ma anche da “sinistra” a seguito di un’applicazione schematica e dogmatica del paradigma leninista. Al di là dei provocatori, è indubbio che occorra aggiornare il paradigma imperialista, che rimane validissimo per descrivere i meccanismi della società occidentale, ma che non può essere applicato ai paesi socialisti, salvo casistiche di grave degenerazione. Occorrerebbe usare i piedi di piombo anche quando si applica la categoria di imperialismo nei confronti di altri paesi non socialisti ma progressisti o progressivi, in quanto alleati di forze socialiste, nell’ambito di un’alleanza, se non soggettivamente, oggettivamente antimperialista.

3) LE DIFFICOLTÀ DEL PARTITO D’AVANGUARDIA

Il partito rivoluzionario d’avanguardia si è dimostrato adeguato per prendere il potere ma inadeguato a gestirlo, dovendosi trasformare in partito di massa per riuscire a governare. Così facendo però il partito si snatura e si annacqua ideologicamente, aprendo il rischio di degenerazioni interne che sul lungo termine portano al crollo del sistema. Il problema si pone anche per i partiti comunisti che agiscono in un contesto di democrazia liberale: se si mantiene un partito ristretto di “quadri”, esso fatica ad acquisire una massa critica adeguata per conquistare l’egemonia. Se si allarga a Partito di massa rischia di contaminarsi al punto da perdere la propria stessa identità nel giro di una o due generazioni, e a quel punto al centralismo democratico si sostituisce il centralismo burocratico, in cui si obbedisce ciecamente ai dirigenti senza il minimo scambio dialettico. Il caso limite conseguente dallo sviluppo indiscriminato di forme di partecipazione popolare e democratica nei processi decisionali è quello del Partito Democratico, diventato un partito di retroguardia che non a caso fa eleggere i propri dirigenti direttamente dal “popolo” sul modello delle “primarie” statunitensi. La questione può probabilmente risolversi solo attraverso il ripristino di una ferrea formazione politica.

4) DEMOCRAZIA E DITTATURA DEL PROLETARIATO

La dittatura del proletariato non è una degenerazione totalitaria del socialismo, ma una necessità storica. Occorre capire come presentarla adeguatamente alla moderna opinione pubblica occidentale. Una possibilità è quella di configurarla con termini diversi, più egemonici, intendendola come una forma di “liberalismo socialista”, capace di accettare e favorire la pluralità del dibattito pubblico e la critica interna ed esterna al Partito, pur mantenendo adeguati paletti: così come oggi è inammissibile (o dovrebbe esserlo) impostare un discorso pubblico apertamente fascista e razzista, ugualmente inammissibile deve diventare l’elogio sperticato del liberismo e del capitalismo. La formula del “liberalismo socialista” non è da confondersi con il “socialismo liberale”, ideologia tesa a lasciare libertà alle organizzazioni borghesi di mantenere una propaganda antisocialista e filo-capitalista. Bisogna realizzare la più avanzata sintesi dialettica della tradizione espressa dal diritto giusnaturalista e giuspositivista, atta a garantire il rispetto di tutti i diritti umani con una “conventio ad excludendum” di alcuni aspetti attualmente presenti nella nostra società. Le costituzioni antifasciste sorte nel secondo dopoguerra ad esempio si sono fondate sull’esclusione formale e giuridica del fascismo. Pur essendo documenti di eccezionale valore, non sono state rispettate né applicate integralmente. Ciò è dipeso dalla permanenza del dominio economico e politico borghese. La democrazia più avanzata si raggiunge solo ponendo termine alla fonte primaria di disuguaglianza e di deficit della libertà individuale: la matrice economica, ossia il modo di produzione capitalista. Una democrazia integrale e pluralista non può quindi che fondarsi sull’accettazione di una dittatura del proletariato il più possibile “liberale” (nei termini sopra espressi) che garantisca un regime economico socialista consentendo a tutti i cittadini il godimento integrale dei diritti sociali, oltre che dei diritti civili e politici.

Alessandro Pascale, responsabile nazionale Formazione del Partito Comunista

1La gran parte delle citazioni sono tratte da A. Pascale, Storia del Comunismo, Intellettualecollettivo.it, 2019 [1° ed. In difesa del socialismo reale e del marxismo-leninismo, 2017] dove è possibile trovare le fonti dettagliate. Ulteriori citazioni nuove sono state tratte da L. Gruppi, Il pensiero di Lenin, Editori Riuniti, Roma 1970.

2Ivi, p. 94.

3Ivi, p. 42.

4K. Marx & F. Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1979 [1° ed. 1966], pp. 763-766.

5L. Gruppi, Il pensiero di Lenin, cit., p. 116.

6Ivi, p. 101.

7Ivi, p. 75.

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